Tre mesi trascorsi a Punta Penìa: diventa re della Marmolada e dei social

Sabato 29 Settembre 2018 di Raffaella Gabrieli
Carlo Budel si fa la barba ai 3342 metri di altitudine di Punta Penìa
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BELLUNO - A furor di popolo Carlo Budel è il re della Marmolada. Nonché di Facebook e Instagram. Classe 1973, di San Gregorio nella Alpi, per tre mesi ha gestito il rifugio più alto delle Dolomiti: Punta Penìa, 3.342 m. Dopo quasi cento giorni di permanenza estiva in quota, ad accogliere coraggiosi alpinisti che si inerpicano tra ghiaccio e rocce, ha raccolto le sue cose in uno zaino ed è tornato a valle, nella sua casa di Muiach. Ma il successo suscitato nei social network, con migliaia e migliaia di like ad ogni post, non cala. Basti pensare che in Fb ha già raggiunto i 5mila amici massimi consentiti e ne ha circa 10mila in coda ad avergli inoltrato la richiesta. Per non parlare delle condivisioni dei suoi video e foto, soprattutto nella pagina Dolomitici, anche queste con numeri a tre zeri. A conquistare il pubblico sono state di certo le immagini di cime innevate, albe mozzafiato, strudel in posa tra la neve con panorami da brivido. Ma, più semplicemente, a far appassionare le persone più disparate è stato lui, Carlo, uomo puro, trasparente e contro corrente. Che con le sue vicende quotidiane tra silenzi e spazi infiniti ha raccontato una storia romantica. Quella storia che tanti, pressati da stress e impegni, vorrebbero avere il coraggio di poter vivere.

 


«Sono nato a Feltre il 9 agosto 1973 ma poco dopo, e fino ai 20 anni, ho abitato a Lavis in Trentino. Tornato nel Feltrino, ho fatto l’operaio alla Cartiera di Santa Giustina per un periodo lungo quasi altrettanto. Dopodiché la vita di fabbrica, di totale routine, ha iniziato a starmi stretta: non mi sentivo libero. Così ho mollato tutto, mi sono preso 20 mesi sabbatici e ho girato in lungo e in largo le montagne bellunesi: in un solo anno ho fatto 450mila metri di dislivello positivo. Fino ad approdare, i primi di giugno, al rifugio Castiglioni, al passo Fedaia, dove il proprietario, Aurelio Soraruf, mi ha proposto di gestire Punta Penia. Ho detto sì».
Quando la prima escursione in montagna?
«Avevo 3 anni: mio nonno Giovanni, sulla schiena, mi portò sul monte Pizzocco, nelle Vette Feltrine. Da quel momento, via via diventato più grande, è nata in me questa passione sana e viscerale per la montagna sino a giungere, ad esempio, a fare in tre giorni le cime di Agner, Pelmo e Antelao».
Com’è stato l’ingresso a Punta Penìa a giugno?
«Diciamo... imbiancato. Ci ho impiegato tre giorni, dal 19 al 21, a liberare dalla neve l’ingresso della capanna. E poi mi sono dedicato ai preparativi per l’apertura, con 4 voli di elicottero: tutto finanziato da Soraruf che nel 1993 acquistò questo rifugio di cui è innamorato».
I momenti più emozionanti?
«Quand’è salito un bambino cieco, accompagnato da due guide. E poi quando ho ospitato uno degli alpinisti top al mondo: Hansjörg Auer».
E quello più brutto?
«Risale agli ultim giorni di permanenza su, quando pensavo che il fortissimo vento staccasse la capanna da terra. Ma gli ancoraggi hanno retto, consentendole di continuare a riparare e salvare le persone da bufere e saette come fa dal 1953».
Mai sofferto la solitudine?
«No. C’è stata quasi sempre gente, sia di giorno che di notte. Ad agosto è successo che per tre giorni non si sia visto nessuno, per colpa delle nevicate. Ma pur da solo, in quell’immensità, non mi sentivo abbandonato. Al contrario, al centro del mondo».
Diatriba confini Marmolada, inevitabile chiederle cosa ne pensa.
«Cent’anni fa si combatteva una guerra per impossessarsi della vetta, oggi si litiga per qualche metro in più o in meno. Probabilmente tra un secolo la questione sarà ancora aperta».
Qual è il suo sogno?
«Aprire un rifugio lungo un’Alta via. Ma intanto mi preparo ad affrontare la stagione invernale (varie decine le offerte di lavoro ricevute ndr). In attesa di tornare, il prossimo giugno, sulla Regina».
 

Ultimo aggiornamento: 20:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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