Sanità in Italia e in Campania: 10 anni di tagli, il disastro annunciato

Domenica 29 Novembre 2020 di Gigi Di Fiore
Sanità in Italia e in Campania: 10 anni di tagli, il disastro annunciato

L’emergenza Covid ha colto impreparato l’intero sistema sanitario italiano. Le armi erano spuntate da tempo e, almeno alla commissione Affari sociali del Senato, lo sapevano già tre mesi prima che esplodesse la pandemia. Era il dicembre del 2019, quando venne depositato al Senato lo studio della ricercatrice del Cnr, Stefania Gabriele, che finiva per essere un’impietosa denuncia sui limiti della nostra sanità alla vigilia dello sblocco di 2 miliardi per il 2020 e 3,5 miliardi per il 2021 previsti nel Patto per la salute 2019-2021.

Divari quantitativi e qualitativi tra le diverse Regioni, ridimensionamenti di personale medico ridotto al risparmio, tagli continui di fondi: era il quadro della nostra sanità alla fine del 2019. Tre mesi dopo, ci sarebbe stato il crudele impatto con l’emergenza Covid. 

Tra il 2010 e il 2018 l’Italia è stata capace di ridurre la spesa per il personale medico-sanitario di quasi due miliardi. Ne è derivato anche «un ridimensionamento del numero di lavoratori, compresi medici e infermieri, in particolare nelle Regioni in piano di rientro, e un peggioramento delle condizioni di lavoro (orari, organizzazione, contenzioso)» si legge nel documento del dicembre 2019. Ma in quelle 41 pagine impietose, accompagnate da tabelle e grafici, si legge anche che «la riduzione del personale ha anche accompagnato il forte ridimensionamento delle strutture ospedaliere (con un obiettivo in termini di posti letto nettamente inferiore alla media europea)». In questo modo, ci siamo presentati nella guerra al Covid, con un sistema di finanziamenti alle Regioni regolato dai «Patti per la salute» annuali. Un sistema che impone alle Regioni, tranne a quelle a Statuto speciale (Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige) di non sforare i bilanci fissati oltre il 7 per cento. Altrimenti scatta il pericolo del commissariamento se falliscono i «piani di rientro», un capestro toccato dal 2007 a metà delle nostre Regioni. Un elenco che lo studio della ricercatrice Stefania Gabriele raccoglie: Lazio, Liguria, Abruzzo, Molise Campania, Sicilia e Sardegna nel 2007; Calabria nel 2009; Puglia e Piemonte nel 2010 con piani di rientro «leggeri». Il commissariamento è poi toccato, sempre negli ultimi dieci anni, a Lazio, Abruzzo, Campania, Molise e Calabria. Tra queste, è il Molise ad essere uscita per prima dal commissariamento nel 2016. La Campania lo ha fatto nel novembre del 2019, dopo 10 anni. 

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I «piani di rientro» hanno costretto le Regioni a ridimensionare le spese per il personale e per le strutture ospedaliere, imponendo aumenti sui costi dei ticket sanitari che hanno pesato sui cittadini. Si legge nello studio: «Le Regioni che sono state sottoposte a piani di rientro, in generale, oltre agli squilibri economici presentavano tradizionalmente elevata mobilità passiva e livelli di prestazioni non soddisfacenti». Come a dire, la gente si andava a curare in Regioni diverse dalla propria e a volte anche all’estero. Negli ultimi dieci anni, sono rimaste estranee ai «piani di rientro» Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana (che l’ha rischiato proprio a maggio 2019, riuscendo a evitarlo per un soffio), Umbria, Marche, Basilicata. Nel panorama generale, la Calabria ha meritato un discorso a parte con un decreto ad hoc diventato legge nel 2019 «per garantire il fondamentale diritto alla salute con misure eccezionali». Un provvedimento che metteva sotto osservazione la gestione della sanità in Calabria, ma offriva anche nuove possibilità di assunzioni all’intero sistema sanitario. 

 

L’allarme per la carenza di medici e di infermieri, che ha reso difficile affrontare l’emergenza Covid, parte da lontano. Nel dicembre del 2019, lo studio commissionato dalla commissione Affari sociali del Senato dava cifre preoccupanti: «Per il blocco del turn over nelle Regioni in piano di rientro e per le misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni negli ultimi 10 anni, data la presenza del vincolo di spesa, il personale a tempo indeterminato del Servizio sanitario nazionale è risultato inferiore a quello del 2008 per circa 42.800 lavoratori (di cui 42.300 stabili), con una riduzione progressiva e costante a partire dal 2010 pari al 6,2 per cento». E in questo caso si parla di personale «stabile». Per direttori generali e personale a tempo determinato, invece, il taglio è stato del 35 per cento. Si è cercato di tamponare le falle sempre con personale «flessibile», ma non è servito a molto nella struttura complessiva del sistema sanitario nazionale. Naturalmente, la riduzione del personale ha toccato di più le Regioni sotto «piano di rientro» dove dal 2008 si sono persi 36700 tra medici e infermieri con un calo del 16,3 per cento. Il calo nelle Regioni a «piano di rientro leggero» (Puglia e Piemonte) è stato del 4,8 per cento, mentre quelle senza «piano di rientro» hanno tagliato il personale solo del 2,2 per cento per far quadrare i conti. In Campania, come nelle altre Regioni sotto «piano di rientro» standard, tra il 2008 e il 2017 i medici sono diminuiti del 18 per cento e gli infermieri dell’11 per cento. Nel personale amministrativo, il taglio è stato del 20 per cento. Si legge nello studio, e si capiscono alcune differenze di partenza nell’arginare l’emergenza Covid»: «Nelle Regioni non sotto piano di rientro il numero di medici è rimasto stabile, mentre per le altre qualifiche si è verificata una diminuzione più limitata, mentre nelle Regioni speciali sono aumentati i lavoratori di tutte le qualifiche, a eccezione dei dirigenti non medici». 

Assenti ingiustificati? Scatta la denuncia

Pubblicato da Il Mattino su Domenica 29 novembre 2020

Nello studio depositato in Senato, si parla anche di «ridimensionamento dell’offerta di servizi ospedalieri». E c’è un dato: il numero posti letto in Italia è sceso in dieci anni per ogni mille abitanti dal 3,9 per cento nel 2007 al 3,2 nel 2017. La media europea è del 5 per cento. Naturalmente, «la riduzione è avvenuta principalmente nelle Regioni sottoposte a piani di rientro». Da qui un’osservazione che sembra un’anticipazione dei commenti sentiti negli ultimi mesi nei servizi e programmi di approfondimento televisivi: «A causa sia dell’insufficienza dei servizi territoriali, sia della ridotta disponibilità di posti letto negli ospedali si è determinato un problema di affollamento e difficile gestione dei servizi di emergenza, soprattutto nelle grandi città e in alcune stagioni dell’anno, cui possono contribuire, oltre alle carenze di personale con utilizzo di medici precari, anche problemi di organizzazione». E la mancanza di medici in alcune specializzazioni, come anestesisti e chirurgia d’urgenza? Un anno fa, c’era già la risposta: «La carenza di posti nelle scuole di specializzazione è stata il frutto di una errata programmazione dei fabbisogni, della limitatezza delle risorse messe a disposizione, della difficoltà di gestire un numero maggiore di studenti da parte delle università, soprattutto per le attività pratiche». E poi la tendenza dei medici a preferire l’occupazione più redditizia nelle cliniche private, pure denunciata nel focus di un anno fa. Un sistema sanitario, dunque, che alla vigilia dell’emergenza Covid si presentava con forti squilibri. Limiti conosciuti, messi poi tragicamente a nudo dall’emergenza Covid. Era tutto già noto.

Ultimo aggiornamento: 30 Novembre, 11:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA