Ucraina, viaggio nell’Est sotto l’assedio russo. «Siamo pochi e senza cibo ma resistiamo nei bunker»

«Ho perso il conto dei giorni passati sottoterra, adesso siamo tutti malati»

Giovedì 14 Aprile 2022 di Davide Arcuri
Viaggio nell’Est sotto l’assedio russo. «Siamo pochi e senza cibo ma resistiamo nei bunker»

«I russi sono alle porte della città e noi ci prepariamo alla battaglia finale». Oleksandr Serhiiovych sindaco della città ucraina più ad est del Donbass riesce a mantenere la calma, nonostante tutto. «Siamo senza acqua, senza gas e senza elettricità». Dei 120 mila abitanti che in tempo di pace abitavano a Sjevjerodonec’k «ne sono rimasti a malapena 25 mila», ammette con un po’ di sconforto.

Le comunicazioni sono state interrotte dai bombardamenti: «Abbiamo evacuato più persone possibile. Il blocco delle linee telefoniche ha complicato le operazioni e ora non siamo in grado di rintracciare tutti i residenti». E allora in città non resta che prepararsi a resistere come possibile. 

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L’ASSEDIO AEREO

Sjevjerodonec’k è una città fantasma «non esiste un edificio che non sia stato colpito». I check-point sono stati abbandonati anche dai soldati. Ad un incrocio incontriamo un gruppo di militari intenti a scavare una trincea, in previsione della guerriglia urbana. Ormai la domanda non è se i russi riusciranno ad arrivare ma quando decideranno di entrare. La difese fuori città sono ormai al collasso, è solo questione di tempo prima che lo scontro si sposti nelle vie del centro. Dall’inizio della guerra a Sjevjerodonec’k sono morti almeno 400 civili. L’invasione via terra non è ancora cominciata, ma la novità è l’utilizzo dell’aviazione. Visitiamo un quartiere a sud della città, dove le bombe sono piovute giusto da poche ore. Sacha ci racconta di aver sentito chiaramente il passaggio dell’aereo: «Prima il fischio e poi l’esplosione. La bomba ha centrato in pieno l’ingresso del rifugio - poi abbassa lo sguardo -. Un uomo ha perso la vita, era uscito solo per fumare una sigaretta». Tra gli abitanti nessuno riesce a darsi una spiegazione per quello che sta accadendo: «Chissà cosa volevano colpire, qui ci sono solo case di civili».

QUELLI CHE NON FUGGONO

Il palazzo del comune è stato trasformato in un centro logistico per gli aiuti umanitari, ogni giorno vengono aiutate circa 300 persone e 30 famiglie con bambini. Dalle prime ore del mattino i civili si mettono in fila indiana per ritirare cibo, medicine e pannolini. Irina ha 73 anni, cammina lentamente trascinando un carrellino: «Datemi del cibo, non ho bisogno di altro. Mio marito non può camminare, è costantemente bloccato a letto». Ogni quattro giorni viene qui a piedi, indossando vecchie ciabatte: carica il carrellino con 10 chili di alimenti e una scorta di prodotti per l’igiene e torna a casa a prendersi cura di suo marito. Maicol è un volontario del centro logistico, parla perfettamente inglese e ci spiega perché molte persone hanno deciso di rimanere in questo inferno: «Mia madre è bloccata a letto, ha 89 anni, come faccio a portarla via? L’unica cosa che posso fare è restarle vicino, di giorno vengo qui a dare una mano per non pensare troppo ai problemi». Il più giovane dei volontari ha 17 anni, si chiama Daniel: «Venite con me, vi faccio vedere la casa della mia vicina». A poche centinaia di metri dalla piazza del comune c’è un’abitazione devastata, colpita da un missile grad proprio due giorni fa. «Erano le 9 di mattina, un frastuono incredibile, la casa a soqquadro». La donna non riesce a trattenere le lacrime, mentre ci racconta di quei tragici momenti. Il missile ha colpito in pieno il garage risparmiando la casa: «È stato un miracolo», dice con la voce rotta dal pianto. «I miei bambini sono ancora sotto choc, vorrei andare a prendere mio padre che abita a due isolati da qui ma non me la sento, ho ancora troppa paura».

 

VITA SOTTOTERRA 

L’ultima tappa nella consegna di aiuti umanitari è un bunker del periodo sovietico riaperto per l’occasione: da oltre un mese ci vivono 240 persone. Una città sottoterra che con il tempo ha saputo organizzarsi. All’esterno ci sono le cucine da campo, all’interno i simboli sovietici che riportano indietro alla prima guerra mondiale. Slava ha in braccio suo figlio di due anni e nove mesi che non smette di piangere: «Non ricordo più da quanto tempo siamo qui. È umido, ci ammaliamo di continuo». La disperazione diffusa si mescola a momenti di rabbia. Una donna perde la calma e inizia a inveire contro il poliziotto di guardia: «Non ci pagano lo stipendio da due mesi, siamo senza soldi, non sappiamo più come fare. Abbiamo bisogno di medicine». Prima di andare via ci ferma una donna: parla in inglese e ha un messaggio per i cittadini europei: «Fate tutto il possibile per aiutarci a raggiungere la pace, è l’unica cosa di cui abbiamo bisogno, non chiediamo altro. Non c’è più tempo, non possiamo più aspettare».

Ultimo aggiornamento: 18:04 © RIPRODUZIONE RISERVATA