Terremoto, la Turchia riparte: «Ma dentro di noi resta l’incubo di quelle scosse»

Consegnate le prime abitazioni: «Ne costruiremo 600mila». In campo gli psicologi per affrontare le paure dei sopravvissut

Venerdì 28 Aprile 2023 di Mauro Evangelisti inviato a Hatay
Terremoto, la Turchia riparte: «Ma dentro di noi resta l incubo di quelle scosse»

dal nostro inviato
HATAY (TURCHIA) «Molti hanno perso familiari, case e lavoro e non accettano quanto è successo, li aiutiamo a convivere con i ricordi.

E c’è chi ha un trauma più crudele: anche se la sua abitazione è considerata sicura, non vuole rientrare. Ha paura che la terra tremi ancora, preferisce restare nei container».

Emre Ozdil è uno dei 16 psicoterapeuti che aiutano le persone che vivono, o forse sopravvivono, nel villaggio formato dai container a Nurdagi, provincia di Gaziantep, in Turchia. Sono ottomila, un quarto sono bambini. Sono trascorsi più di due mesi e mezzo dalla doppia spaventosa scossa di terremoto che ha ferito 11 province turche. Mentre gli psicoterapeuti parlano di «sindrome post traumatica», a poche decine di metri, in una piazza improvvisata, un burattinaio prova a regalare allegria ai più piccoli che osservano il palco con il naso all’insù. Gli adolescenti si raggruppano ai lati, non c’è molto da fare al campo. Spesso si vedono le famiglie riunite davanti alle porte dei container, sedute attorno a un tavolo di plastica, ti offrono il tè se ti avvicini.


FAMIGLIE
Faruk Olkuku, con la moglie in attesa di un figlio, fa un rapido calcolo: sono morti 9 familiari nel terremoto. Trascorre le giornate ad aspettare il futuro. «Ma il governo ci ha aiutato, ci hanno dato un posto nel container dieci giorni dopo il terremoto. Ci danno da mangiare, abbiamo speranza».

Spostiamoci di una quindicina di chilometri: su una collinetta si sono radunati 20.000 sostenitori di Erdogan. Bandiere, urla, cori. Il presidente inaugura 10 case indipendenti costruite in 50 giorni, chi ci andrà ad abitare potrà anche coltivare la terra. Sono graziose, quasi slegate dal paesaggio intorno. Dire che è una goccia nell’oceano è perfino poco.

Ma stretta dal resto della folla, in prima fila come ad un concerto, Melike, 22 anni, studentessa di giornalismo, spiega: «Per noi queste case rappresentano la speranza. Vedrete, la Turchia sarà efficiente nella ricostruzione. Io ho fiducia». Ha fiducia in Erdogan, ovviamente, altrimenti non sarebbe lì. Il presidente, che nella risposta al terremoto si gioca una fetta del risultato elettorale, arriva in elicottero, sale sul palco e annuncia: «Abbiamo già iniziato la costruzione di 105mila case, in totale ne realizzeremo 650mila in 11 province. Oggi siamo al 75esimo giorno dal terremoto e consegniamo le 10 case del villaggio. E prevediamo di non lasciare neppure un edificio a rischio sismico in 5 anni a Istanbul». La folla s’infiamma, tutto attorno in quell’area di campagna è un susseguirsi di ritratti del presidente, striscioni, manifesti, slogan. Tutto è successo sabato scorso, nei giorni successivi Erdogan ha dovuto poi prendere una pausa a causa di un malore. Ma una cosa è la corsa elettorale, un’altra le dimensioni della catastrofe del 6 febbraio, spalmata tra una parte di Turchia e una terra ancora più sfortunata, la Siria.

Le scosse furono due, la prima, nella zona di Gaziantep, fu di magnitudo 7,8; la seconda di 7,6 nella provincia di Kahramanmaraş: 57mila morti, di cui 50mila in Turchia. Gli sfollati sono 1,9 milioni. Il terremoto è stato molto esteso e allo stesso tempo chirurgico. A Gaziantep ci sono rari segni di distruzione. In altri centri magari solo pochi edifici sono crollati. Ma ci sono città quasi rase al suolo o svuotate. E per avere un effetto visivo di cosa significhi un terremoto così disastroso bisogna spostarsi nella provincia di Hatay. Si deve camminare nel centro, ad Antakya: i soldati vigilano davanti a migliaia di edifici fantasma, in parte demoliti, in parte cadenti. Qui vivevano in 200mila, non c’è più nessuno nelle case. E le pochissime abitazioni integre restano vuote, nessuno ha il coraggio di rientrare. Solo pochi negozietti provano ad aprire, a ripartire.

Dal basso, dopo il tramonto, puoi vedere la cupezza di un centro piegato e senza vita, sovrastato da una spruzzata di luci della tendopoli sviluppata su una collinetta. Una bambina di 11 anni gioca per strada e riesce a dire con qualche parola in inglese che sì, lei abita là, e fa un segno con la mano che dall’alto scende giù per spiegare cosa è successo alla sua casa quando la terra ha tremato. E lungo la strada principale le immagini sono simili: alle tendopoli si alternano vaste aree ricoperte da carcasse di auto distrutte dal terremoto. In periferia c’è il Museo dell’archeologia di Hatay. «Uno dei più importanti al mondo» racconta la direttrice Ayse Ersoy, davanti all’edificio moderno dalle forme aggraziate, danneggiato però dal sisma. Vicino a lei, un uomo di 62 anni che non vuole essere citato per nome, ma racconta la sua storia. È funzionario dei Beni culturali, quasi un custode dei mosaici di epoca romana e bizantina conservati nel museo: «Quando la terra ha tremato, mia moglie è rimasta ferita. Hanno dovuto operarla.

Dopo averla soccorsa, però, io sono corso qui al museo. Dovevo salvare i nostri tesori. Ora siamo al lavoro per riparare i danni. Servirà tempo, ma riapriremo». Quasi s’incupisce quando gli chiedono se sta arrivando aiuto da altri Paesi per salvare i mosaici: «No, no, faremo tutto da soli. Ne abbiamo la capacità, non ci può insegnare niente nessuno». Ogni anno il museo veniva visitato da 800mila persone. Sempre nella provincia di Hatay in porto c’è la Bayraktar, una delle due navi da guerra che dopo le scosse sono state inviate dal governo per i soccorsi. All’interno medici, letti, un pronto soccorso, sale operatorie e laboratori analisi. In totale sono stati curati 15.000 pazienti, alcuni molto gravi.

«Il nostro lavoro non è finito - racconta Baris, un giovane medico - continuiamo ad accogliere cittadini della zona. Purtroppo la vita in una tendopoli non è semplice, a volte ci sono infezioni batteriche, diarrea, per fortuna i casi molto gravi sono diminuiti. Qui sono nati anche due bambini, subito dopo il sisma». «Per noi è la prima volta che nascono bambini in una nave da guerra» conferma il capitano, Lutfu Zezgin. Tra il personale sanitario e l’equipaggio c’è chi ha visto morire i familiari nel terremoto, «ma nessuno si è tirato indietro, tutti sono venuti a fare il proprio dovere».
 

Ultimo aggiornamento: 30 Aprile, 12:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA