Sventola ancora la bandiera ucraina sulle macerie della periferia sud-ovest di Bakhmut, nel Donetsk, una volta ridente cittadina di 70mila abitanti con palazzine ottocentesche, viali a tre corsie, parchi ben curati e vinerie di spumante volute da Stalin negli anni 50. Oggi rasa al suolo dai russi e ridotta a un cumulo di detriti in cui si aggirano gli spettri di circa 20mila tra soldati di Putin e mercenari Wagner di Prigozhin uccisi, a fronte di poche migliaia di ucraini caduti per difenderla, un rapporto di 1 a 5 per la Nato e 1 a 7 per Kiev.
SUL CAMPO
Gli ucraini tengono qualche posizione che loro stessi definiscono ormai «insignificanti» ai margini della città, che è sotto il controllo di Prigozhin e dei suoi mercenari venuti dall'Africa. E lui, l'ex chef di Putin, srotola la bandiera russa davanti alla telecamera sullo sfondo di abitazioni sventrate, e non ha il tono trionfale del conquistatore, ma gronda e vomita accuse al ministro della Difesa, Shoigu, che avrebbe provocato una mattanza di russi lesinando le munizioni. «E adesso scrive su Telegram ci saranno premi per 50 funzionari del ministero come eroi di guerra». Suonano dovute le congratulazioni di Putin alle unità d'assalto Wagner, «come alle unità delle Forze armate che hanno fornito il necessario supporto e la protezione dei fianchi per liberare Artyomovsk». Nome russo della cittadina, ribattezzata dagli ucraini con quello storico di Bakhmut nel 2016. Shoigu aveva detto che conquistando Bakhmut i russi avrebbero potuto avanzare oltre, in profondità. Ma la controffensiva ucraina degli ultimi giorni sui fianchi nord e sud, e il rafforzamento delle linee difensive verso Kramatorsk e Sloviansk, impediscono qualsiasi progresso militare di Mosca. Il successo, se di successo si può parlare, è una vittoria di Pirro. «Si è detto che era una battaglia per le miniere di sale e gesso, ma questa è una guerra del sale?», chiede sarcastico il co-direttore del Telegraph, Dominic Nicholls. «Poi che era un crocevia stradale, ma si può guidare per chilometri e chilometri e trovarsi sempre al centro del nulla». Allora perché attaccare Bakhmut e perché difenderla? «È tutta una questione politica», dice Phillips O'Brien, professore di studi strategici all'Università scozzese di St. Andrews. «I russi l'hanno rasa al suolo per occupare quello spazio fisico, che però non ha importanza strategica. È stata una scelta politica in due sensi: avevano bisogno di una vittoria, dopo non aver conquistato nulla in mesi e mesi di offensiva. Ma c'è stato anche un elemento di competizione politica interna al sistema di potere russo. È terribile aver sacrificato tante vite umane per nulla. Tutto ciò che Prigozhin dice ora è che non è colpa sua. Non può impacchettare un trionfo che lo aiuti nella lotta per il Cremlino. È la follia della guerra, e della strategia russa».
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