Haftar, patto con i clan a appoggio saudita: ecco chi c'è dietro il blitz

Domenica 7 Aprile 2019 di Marco Ventura
Haftar, patto con i clan a appoggio saudita: ecco chi c'è dietro il blitz

O la va o la spacca. Questo il ragionamento che deve aver fatto il generale Khalifa Haftar. L'immagine usata da Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali (Cesi) è quella del «giocatore che getta i dadi». L'obiettivo sarebbe quello di far trovare di fronte al «dato di fatto» i suoi stessi sponsor internazionali titubanti davanti all'atto di forza (la Francia), con l'avallo, invece, o addirittura l'appoggio di altri attori come Arabia Saudita, Egitto e, forse, Emirati arabi uniti. Altro obiettivo è quello interno di presentarsi a tutti i libici, anche alla Tripolitania, come il nuovo leader, l'uomo forte capace di tenere a bada le molteplici istanze delle decine di clan e milizie. Come in passato Gheddafi.

Tensione in Libia: Eni dispone evacuazione personale italiano

L'ORGOGLIO NAZIONALE
I libici, a dispetto delle loro lotte intestine, sono animati da un orgoglio nazionale che sempre li compatta contro le ingerenze straniere, ma mostrano anche una sensibilità spiccata per la mitologia del capo beduino. Haftar ha tuttavia un grave svantaggio di partenza: rappresenta Bengasi e la Cirenaica, contrapposte a Tripoli e in qualche misura al Fezzan (l'immensa landa desertica a Sud).
 



IL RISCHIO
Davanti gli si profila un rischio forse non abbastanza calcolato: la perdita di qualsiasi credibilità come aspirante leader di un Paese unificato lungo un percorso indicato e condiviso dalla comunità internazionale, in particolare da Onu e Unione europea che ufficialmente riconoscono come legittimo capo del governo libico il pur debole Fayaz al-Serraj.
Ci sono svariati indizi a favore dell'interpretazione del «colpo di testa». Uno è la scelta del momento, l'annuncio ufficiale dell'offensiva su Tripoli in concomitanza con la visita della massima autorità dell'Onu, il segretario generale Guterres. Uno sgarbo così smaccato da poter essere difficilmente avallato persino dalla Francia che formalmente riconosce Serraj, ma che non ha mai smesso di rivendicare le proprie ragioni a favore di un accordo con Haftar (la difesa dei propri interessi economici in Africa e la guerra senza quartiere al terrorismo dell'Isis e dei gruppi affiliati). Il secondo è l'imbarazzo francese e l'allineamento, senza se e senza ma, agli appelli congiunti dell'UE, dell'Onu, dello stesso G7, a mettere fine alle violenze e rinunciare all'avanzata su Tripoli. L'altolà di Matteo Salvini alla Francia, quel «non vorrei che» dietro l'offensiva ci fosse qualcuno (Macron) che persegue certi interessi, è stato piuttosto un mettere le mani avanti nel caso in cui la manovra di Haftar avesse successo.
Ma quali sono le mosse e gli strumenti che hanno convinto il Generale a rompere gli indugi e gettare i dadi? Certo, la capacità militare irrobustita dagli apporti di Egitto ed Emirati arabi uniti. Certo, la fragile leadership di Serraj. Ma in particolare il patto con alcuni clan finora schierati a difesa di Tripoli, soprattutto quelli di ispirazione salafita attorno all'aeroporto della capitale a Mitiga. Qui la milizia Rada, che sembra non voler resistere all'avanzata di Haftar, appartiene alla stessa corrente salafita Madkhali dei migliori reparti sauditi.

L'INCONTRO
La settimana scorsa, il Generale era stato ricevuto dal Re Salman, che al contrario si era rifiutato a Tunisi di farsi fotografare con Serraj. Inoltre, potrebbero essersi alleati con Bengasi capi-milizia importanti nella stessa Tripoli come Tajouri e Bishr, assoldati dagli emiratini. A completare il quadro, l'appello pro-Haftar del predicatore saudita salafita Rabee al-Madkhali.
La milizia che sta invece dimostrando di essere fieramente avversaria dell'Esercito di liberazione nazionale (Lna) di Bengasi è quella di Misurata, che lotta strenuamente per il controllo dello snodo cruciale di Gharyan e Souq al-Khamis, sud-est di Tripoli, e sferra raid punitivi contro le tribù di Ben Gashir passate col Generale.

GLI ALTRI
E altre milizie locali sulla cui non belligeranza Haftar aveva forse fatto affidamento, lo avrebbero ricacciato indietro a Zawiya. La parola in Libia, ancora una volta, è alle armi. Per l'Italia, i rischi sono altissimi: abbiamo le installazioni Eni, 200 militari, enormi interessi economici e in gioco è la nostra credibilità politica in tutta l'area e negli organismi multilaterali. E dietro l'angolo, incombe la ripresa del flusso di migranti dalle coste.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA