Guerra Israele, l'ex generale Amir Avivi: «Nessuno può dirci quando fermarci, non credo nella trattativa diplomatica»

L'ex generale: il nostro esercito avrà responsabilità militare su Gaza e controlleremo il confine egiziano

Mercoledì 15 Novembre 2023 di Greta Cristini
Guerra Israele, l'ex generale Amir Avivi: «Nessuno può dirci quando fermarci, non credo nella trattativa diplomatica»

«Questa guerra è un'opportunità per ripensare l'intera strategia securitaria di Israele». È questo il pensiero di fondo del generale Amir Avivi, presidente dell'Israel defense security forum. 30 anni di servizio nell'esercito, è stato capo del Dipartimento di revisione e consulenza dell'establishment della Difesa, direttore dell'Ufficio del Capo di Stato maggiore, vice-comandante della Divisione Gaza.

Quanto durerà ancora la guerra di Israele contro Hamas?

«Per distruggere tutte le organizzazioni terroristiche attive a Gaza, non solo Hamas, bisogna controllare l'intera Striscia, un processo che può impiegare diversi mesi.

Per smantellare le infrastrutture invece può volerci oltre un anno. Poi non è da escludere un ampliamento del conflitto al Nord. Ci sono ragioni pro e contro un coinvolgimento di Hezbollah nella guerra, ma se l'Iran avverte che Israele sta per annientare Hamas, potrebbe decidere di agire in anticipo e aprire un nuovo fronte dal Libano. E anche la nostra opinione pubblica interna potrebbe fare pressioni sul governo per occuparci una volta per tutte di Hezbollah. L'innesco potrebbe venire da loro, da noi o da una perdita di controllo. Nessuno però può dirci quando finire. Non è una singola operazione, è una guerra».

Come si combatte a Gaza City?

«L'asset maggiore di Hamas è l'infrastruttura sotterranea di tunnel utilizzati come rifugio, deposito di armi e risorsa per colpire i nostri soldati alle spalle. La tattica è far avanzare i nostri uomini, risbucare da dietro o dai lati e sorprenderli con missili anticarro oppure attaccando bombe ai carri armati. Per questo, le nostre truppe anziché avanzare velocemente verso il centro di gravità nemico, devono prima prendere il controllo di una zona, accertarsi di aver reso inagibili i tunnel, poi procedere. Dobbiamo essere sistematici nell'avanzata da terra, che è sempre anticipata dalla bonifica di aviazione e artiglieria. Ora però Hamas è meno organizzato: prima compiva attacchi con 40-50 persone, ora solo in piccoli gruppi di due o tre persone. Dei 23 battaglioni operativi inizialmente, 10 sono già inattivi».

Come gestite l'evacuazione dei civili?

«A Gaza, non c'è casa che non sia collegata a un tunnel. È una sola grande fortezza e quando faremo esplodere tutto, l'intera città collasserà. Quindi ci stiamo assicurando che i civili vadano verso Sud. Qui c'è un problema umanitario perché questa gente non potrà più tornare nelle proprie case, dato che non ne resterà più nulla. Adesso stiamo spingendo i palestinesi verso l'ex insediamento ebraico di Gush Katif, un'area costiera con pochi edifici, ma è una soluzione temporanea perché al di sotto ci sono bunker con munizioni. Per salvarsi, la popolazione deve evacuare nel Sinai. Non capisco perché si costringano i palestinesi a restare intrappolati in una zona di combattimento e non si faccia pressione sull'Egitto per aprire i confini. Agli ucraini le frontiere sono state aperte. Qui no e per questo ci saranno molte più vittime oppure centinaia di migliaia di palestinesi forzeranno i confini e scenderanno nel deserto senza controllo. Di certo, nessun arabo entrerà nel territorio israeliano».

Crede nella liberazione degli ostaggi per via diplomatica?

«Per noi il Qatar è come Hamas e queste trattative richiedono mesi. Confido più nel successo delle nostre manovre militari che nei negoziati. Maggiore sarà il nostro controllo sui tunnel che ospitano gli ostaggi, maggiori saranno le pressioni su Hamas e le possibilità di liberare i cittadini. Più che un unico grande negoziato, poi è più facile che abbiano successo singole e specifiche trattative».

Qual è il futuro politico di Gaza?

«L'esercito israeliano avrà una responsabilità militare totale. Dovremo assicurarci il controllo della frontiera egiziana per evitare un flusso incontrollato di armi e la piena libertà operativa dell'Idf in caso vi sia necessità di estirpare nuove cellule terroristiche. Dal punto di vista politico, una soluzione potrebbe essere quella di leadership locali, clan e città-stato, com'è il caso degli Emirati Arabi Uniti. Di certo non sarà l'Autorità nazionale palestinese in carica e questo dovrebbe farci interrogare anche sul futuro della Cisgiordania. Perché mantenere la sede attuale se non la vogliamo a Gaza? Lo scenario nella Striscia potrebbe essere simile a quello della zona B nella West Bank».

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