Romina Fedeli, maggiore dell'Esercito in Libano: «Salvata dai militari nel terremoto, ecco perché indosso la divisa»

A capo dei Gender Focal Point a Shama, studia le strategie per ridurre le diseguaglianze. Donne e bambini prime vittime di guerra e crisi economica

Mercoledì 22 Marzo 2023 di Nicola Pinna
Le donne di Unifil sono di casa nelle città e nei villaggi del Libano del sud, dove è in corso da molti anni la missione internazionale che ha come obiettivo il cessate il fuoco e il supporto alla popolazione (Foto di MATTEO OPPO)

La parlantina rallenta, il tono di voce si abbassa e il pensiero corre subito a quell’incubo: alla notte del 26 settembre 1997.

Il racconto deve partire da qui: da questo flashback. Romina Fedeli è una ragazzina di 17 anni e per lei è il momento giusto per cominciare a dare una forma al futuro. Gli studi universitari sono dietro l’angolo: è ormai il tempo di smettere di giocare con il vecchio ritornello del cosa vuoi fare da grande. Ma a Collicurti quel giorno sembra che tutto debba finire in un amen: la sciagura del terremoto rade al suolo in pochi istanti il piccolo paese delle Marche.

Uno scenario che nel Centro Italia si è visto troppe volte. Sotto le macerie restano tante vite e nei cumuli di calcinacci rischiano di rimanere sommersi anche i progetti di Romina. «Non esagero se dico che stavo per morire: insieme a mia sorella ero bloccata, intrappolata senza possibilità di fuga, sotto a quel poco che restava della nostra camera da letto. Non potevamo muoverci, non ci saremmo salvate. E invece sono arrivati dei militari che mi hanno tirato fuori da quell’inferno. Non avevo mai visto quegli uomini in divisa e invece eccoli lì, all’improvviso, quando avevamo già perso le speranze. Non ne sarei uscita viva e questo mi è stato chiaro fin da subito. E infatti proprio in quel momento ho deciso che per tutta la vita avrei voluto indossare la stessa uniforme di quei ragazzi che mi hanno salvato da una morte sicura».

Romina Fedeli, maggiore dell'Esercito a capo dei Gender Focal Point in Libano

L’INCARICO

Ventisei anni dopo il trauma è ancora lì, nella mente e nel cuore, ma oggi Romina Fedeli indossa la mimetica e porta con fierezza le mostrine da maggiore dell’Esercito. Dal secondo corso per donne dell’Accademia di Modena di strada ne è stata percorsa tanta e ora il suo sorriso è diventato familiare nei villaggi intorno a Shama, non lontano dalla rovente striscia di confine che avvicina e allontana Libano e Israele. Qui il maggiore Fedeli non è arrivata per partecipare alle pattuglie che ogni giorno consentono di ridurre le tensioni intorno alla “Blue line”, ma per un ruolo che nelle forze armate italiane è stato introdotto di recente. «Sono la responsabile dei Gender Focal Point, faccio parte dello staff del comandante e sono incaricata di studiare tutte le strategie per ridurre le disparità e tutelare le minoranze. All’interno del contingente ma anche nel lavoro esterno». E questa sembra essere proprio la parte più delicata del lavoro, perché insieme a un team di 72 militari, l’ex bambina di Collicurti coordina quella parte della missione Unifil che ha reso gli italiani i più amati dai libanesi. Perché qui, dove l’obiettivo quotidiano è evitare la ripresa delle ostilità tra due Stati eternamente nemici, c’è da attuare un’altra strategia: aiutare la popolazione ad affrontare le difficoltà che derivano dalle tracce mai cancellate della guerra e ravvivate oggi da una crisi economica epocale. «A pagarne le conseguenze più gravi, come al solito, sono le fette deboli della popolazione e cioè le donne e i bambini – racconta il maggiore – Proprio a loro ci rivolgiamo e con loro abbiamo instaurato in questi anni un rapporto speciale. Ogni giorno i nostri team vanno in giro per i villaggi, visitano le scuole, incontrano le famiglie, raccolgono segnalazioni. Facciamo le sentinelle di quelle esigenze che la popolazione altrimenti non manifesterebbe, soprattutto perché a viverle sono persone che abitualmente non hanno voce».

LE RICHIESTE

Il gender-gap, in una zona di confine e di guerra sempre latente, si abbatte con tante piccole azioni. Con richieste di aiuto soddisfatte senza darne pubblicità e progetti che poi cambiano la vita delle donne e delle loro famiglie. «Abbiamo a che fare con persone che appartengono a 18 differenti confessioni religiose ma questo per noi cambia poco, perché le necessità superano queste differenze – sottolinea Fedeli – Le richieste che ora ci arrivano più frequentemente riguardano i medicinali, soprattutto per gli anziani: la gente non ha i soldi per curarsi. E neppure per pagare il carburante, tanto che molti genitori non stanno portando i figli a scuola perché non possono prendere l’auto. In molti casi abbiamo organizzato corsi di cucina e donato le macchine per cucire e così molte donne hanno potuto realizzare in casa la biancheria intima. Molte ci chiedono di conoscere le nostre storie, perché ci vedono come un esempio». E infatti proprio ammirando il lavoro delle soldatesse italiane, la ventenne Jana Sader (originaria di un paese che ricade nel Sector West in cui sventola il tricolore) ha scelto di diventare pilota militare e giusto nei giorni scorsi ha ottenuto il brevetto per mettersi ai comandi di un jet Super Tucano: eccola, in posa, nell’hangar di una scuola aeronautica americana, la prima top gun del Libano. Nella base di Shama, dove l’Italia guida il Sector West della missione di pace dell’Onu, si festeggia provando a spianare la strada dell’integrazione economica. «Consentiamo loro di allestire dei mercatini all’interno della base e così diamo loro anche un’altra opportunità – racconta Fedeli – Quando sono arrivata credevo sarebbe stato difficile costruire un dialogo con le donne dei paesi intorno a Shama e invece la comunicazione è stata molto facile. Prima di tutto perché quando arrivano gli italiani si aprono le porte di tutte le case. E in una situazione così difficile noi militari sfoderiamo l’arma più potente: il sorriso. In certe situazione è più convincente di una bomba».

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Ultimo aggiornamento: 6 Aprile, 14:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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