Occasione donna, la manager Michaela Castelli: «Il Recovery non è la terra promessa»

Mercoledì 28 Ottobre 2020 di Roberta Amoruso
Occasione donna, la manager Michaela Castelli: «Il Recovery non è la terra promessa»

Michaela Castelli, come presidente di Nexi, la più grande quotazione di Borsa italiana del 2019 ora pronta a creare un colosso dei pagamenti digitali con Sia, ma anche presidente di Sea, di Acea e di Utilitalia, la Federazione delle imprese dei servizi di acqua, ambiente ed energia, rappresenta la prova vivente che alcuni passi avanti sono stati segnati negli ultimi anni per colmare il gender balance anche alla guida delle imprese. Ma la strada è ancora lunga. Nel 1993 la percentuale di donne negli organi amministrativi e di controllo delle banche superava appena l’1%, mentre nel 2019 era pari al 17% negli organi di amministrazione, al 18% in quelli di controllo. Quote che arrivano al 29% nei cda e al 41% negli organi di controllo nelle grandi banche con capitale oltre 30 miliardi. Tuttavia, soltanto raramente le donne occupano la posizione di amministratore delegato o di presidente tanto dei consigli di amministrazione che degli organi di controllo. E secondo l’ultimo rapporto Eba sulla diversity, nelle istituzioni finanziarie la quota di donne tra gli executive director delle banche italiane è inferiore alla media europea. Più in generale l’occupazione femminile in Italia (sotto il 50%) è ben lontana dalla media Ue.
Castelli, crede che l’occasione offerta dal Recovery Fund possa essere colta per avvicinarci all’Europa anche in tema di diversity?
«Sempre che il Recovery Fund non diventi una chimera.

La notizia che con lo slittamento del bilancio europeo l’arrivo delle prime risorse sarà rinviato a gennaio ad essere ottimisti, non rassicura. Quando ciò accadrà, sono però convinta che il governo utilizzerà quelle risorse per veicolare prevalentemente progettualità infrastrutturali, con l’obiettivo di far fronte a carenze importanti del Paese. Difficilmente penso potranno, quindi, essere accolte e gestite istanze diverse soprattutto se con impegni di spesa poco significativi».

Dunque, sono soltanto illusioni?
«Per quanto ne so l’unico cluster in cui potrebbero essere ricomprese progettualità che in parte colgono il tema dell’uguaglianza di genere è il capitolo digitalizzazione e formazione professionale. Ma su questo le aziende italiane, da quanto ho avuto modo di vedere, hanno finora espresso pochissima progettualità rispetto ad altri temi. Anche per via dei rigidi paletti Ue nelle procedure di utilizzo dei fondi da assegnare».
Dalle parole di Ursula von der Leyen sembrava che il traguardo fosse vicino. 
«Non penso che il Recovery Fund, nato per affrontare l’emergenza, possa essere lo strumento adatto per gestire e risolvere tematiche strutturali come il gender balance. Credo però che, almeno indirettamente il Next Generation Eu potrà aprire una porta importante anche su questo fronte. Liberando risorse interne che potranno essere utilmente destinate a far evolvere situazioni “tipiche” del nostro Paese».
Intende dire che si aprirà una rotta alternativa?
«Certo. Di fatto potranno essere liberate risorse finora destinate nella Legge di Bilancio del governo al rilancio dei progetti infrastrutturali del Paese finanziabili attraverso i fondi Eu. Approfittiamo di questa situazione e del Recovery Fund, per dedicarci meglio a colmare certi gap evidenti nei numeri, sia sul fronte della professionalità della nostra forza lavoro che di gender balance».
Da che misure partirebbe per incentivare un’occupazione femminile che se arrivasse al 60%, secondo Bankitalia, potrebbe spingere il Pil del 7%?
«Si parte sempre dal dato occupazionale, ma c’è un dato, altrettanto desolante, che più di tutti mi piace ricordare: solo il 22% delle imprese italiane sono a guida femminile, e soltanto la metà hanno fondatrici donne, quindi persone che hanno intrapreso un percorso imprenditoriale che comporta gestione del capitale di rischio e presuppone un’elevata managerialità. Va inoltre sottolineato che proprio in questo ambito si intraprendono molte progettualità legate alla sostenibilità, al green e al welfare. Un motivo in più per spingere in questa direzione».
Quindi ci vuole un mix di incentivi. Ma quanto conta anche il welfare territoriale, la carenza cronica di servizi a tappeto come gli asili nido?
«Non c’è dubbio che un tema centrale sia quello dei servizi alle famiglie. Si tratta di un gap storico che do per scontato debba essere colmato. Allargherei la visione però alle potenzialità del mondo delle imprese. Si tratta di far leva ulteriormente sul valore strategico delle Pmi che caratterizza il nostro Paese anche con un’attenzione all’imprenditoria femminile».
Come convincerle ad accentuare questa particolare attenzione?
«Occorre prevedere incentivi non rivolti soltanto al sostegno di un’imprenditoria, che ha molte potenzialità economiche, ma anche a chi si occupa di servizi rispetto ai quali lo Stato non riesce a provvedere o a riequilibrare la composizione di genere dell’occupazione. E non dimentichiamo il gap sulle remunerazioni».
Un più giusto equilibrio nello stipendio renderebbe meno automatico per le donne il passo indietro nel lavoro?
«Dico che i numeri parlano chiaro: il 70% delle donne che rimangono impiegate sono comunque a lavori part-time o mansioni impiegatizie di basso livello. Quindi c’è anche un tema di professionalizzazione delle donne. Mantenere l’equità retributiva permetterebbe una maggiore integrazione nel mondo del lavoro. Lo sviluppo dello smart working, per esempio, è un ulteriore strumento di riequilibrio anche nel supporto all’interno della famiglia». 
Più flessibilità sul lavoro grazie allo smart working può essere un incentivo?
«Non è esattamente così: lo smart working aiuta non perché le donne possono lavorare da casa, ma perché le famiglie si possono meglio organizzare in una logica di progettualità anche economica. Significa recuperare più equità tra uomo e donna nei ruoli familiari, finora  culturalmente cristallizzati. Si tratta di fare un salto culturale. Il lockdown ci ha tolto tanto, ma ci ha anche insegnato che la flessibilità lavorativa è un valore».
Ma abbiamo qualcosa da imparare anche in tema di imprenditorialità femminile da altri Paesi europei?
«Devo dire che nel resto d’Europa c’è un maggior riconoscimento dell’attività di ricerca delle donne, ma tranne poche eccezioni, anche nel resto d’Europa questo tipo di imprenditorialità trova poco spazio nell’agenda dei governi. Serve un progetto organico a livello centrale che porti a una svolta strutturale, non incentivi spot da parte di un singolo ministero, magari alle imprese che hanno tre donne nel cda». 
Se ne parla da decenni, ma finora non ci siamo riusciti.
«La pandemia ci sta portando a una “nuova normalità” e dobbiamo approfittare di questa occasione per spingere su delle alternative imprenditoriali che fanno fatica ad emergere. Bisogna dare alle famiglie la possibilità di accedere con maggiore facilità - magari rimuovendo anche certa burocrazia - e flessibilità a percorsi alternativi con forti potenzialità. Senza una regia unica a livello di governo, anche quando si mettono in campo fondi pubblici insieme a quelli privati si fa fatica a misurare il valore delle iniziative e dei risultati, e quindi anche a correggere il tiro».
Magari con un patto pubblico-privato.
«Certo, è un percorso necessario. È chiaro che in questo momento la relazione pubblico-privato soffre un po’ di una situazione emergenziale senza precedenti. Ma se si vuole guardare alla ripartenza, dobbiamo investire oggi in questo tipo di progettualità. Credo, inoltre, che vada sottolineato più che mai in questo momento come le risorse del Recovery Fund, se utilizzate bene, avranno un ruolo decisivo nel preservare i livelli occupazionali ma anche la qualità della forza lavoro. E sono convinta che tematiche come il gender gap, finora un po’ sospese, anche per motivi ideologici, oggi potrebbero essere affrontate con la necessaria concretezza». 
Ora o mai più?
«Direi di sì. Questo anche grazie al clima che si è creato con la pandemia, più orientato all’interesse generale, che all’interesse singolo all’interno delle famiglie come delle imprese».
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Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 10:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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