Gli 80 anni di Caovilla: «Ho fatto le scrape a Sharon Stone»

Lunedì 5 Novembre 2018 di Edoardo Pittalis
Sharon Stone e Renè Caovilla
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«Ottant'anni? Non li ricordo, mi sono fermato a 70! Ringrazio il cielo e il Buon Dio che mi sento ancora attuale. Cerco di passare la mano al figlio. Sono impegnato nella formazione e seguo varie opere di beneficenza, in Africa e Italia: la felicità la riscontro sempre negli occhi di chi ha poco. Mi chiedono se Renè è il mio nome d'arte, no: Renè Fernando è proprio il mio nome e nel mondo della moda suona davvero bene! Sono cresciuto qui in via Nazionale, quasi dove oggi c'è l'azienda. Mi hanno raccontato che il giorno che sono nato c'era uno che veniva a vendere le uova e ha suonato la fisarmonica per festeggiare. Era tutto un altro mondo, a Fiesso a marzo incominciavi a camminare a piedi nudi per terra e la terra era tanto liscia che non ti facevi male. A marzo il mato va scalzo, diceva un proverbio.
Renè Fernando Caovilla, di Fiesso d'Artico, è il creatore di una delle più famose griffe al mondo della moda delle scarpe da donna. Un suo modello è esposto al Mo-Ma di New York, un altro alla Biennale d'Arte di Venezia. Trecento paia di scarpe al giorno. Un centinaio di dipendenti in fabbrica e altrettanti nei laboratori della Riviera del Brenta. L'azienda si è allargata nelle scuderie di una villa veneziana del Seicento, alle spalle della più famosa Villa Pisani di Stra. 
In questo angolo di Veneto nasce la storia dei Caovilla, nel 1934 quando il piccolo artigiano delle scarpe Edoardo si mette in proprio. «C'era già sul Brenta una tradizione calzaturiera, allora c'era soprattutto il nome di Luigi Voltan che a metà Ottocento era andato in America e aveva imparato che anche per fare le scarpe si poteva usare una sorta di catena di montaggio, automatizzare la produzione. Al ritorno ha aperto una fabbrica che è stata la base di tutta l'industria della Riviera; ci lavorava anche mio padre».
Un destino tracciato quello di Renè Fernando?
«Ho fatto le medie al Barbarigo di Padova, quando dovevo andare alle superiori ho detto a mio padre: Mi piace il tuo lavoro. Avrebbe voluto che continuassi gli studi, mi rispose: Fernando guarda che quando diventerai grande devi sempre fare il passo lungo come la gamba, pagare in contanti, mai dipendere dalle banche. Mi prese a lavorare a una condizione: Si fanno le dieci ore, ma tu devi arrivare prima e andare via dopo e non esistono sabati e domeniche. Ha cercato di fissarmi in testa tre principi: passione, spirito di sacrificio, costanza. Dopo le scuole serali per i corsi di disegno e modellistica al Palazzo Reale di Stra, mi ha mandato a Parigi per imparare bene a disegnare, perché la Francia era la moda, e a Londra per imparare l'inglese, perché era la lingua del mondo degli affari».
Come è stato l'inizio del lavoro?
«A 15 anni sono riuscito a mettere insieme una piccola collezione dei nostri modelli e con tre valigie, che erano lunghe e strette perché dovevano contenere 40 paia di scarpe da donna, sono partito per la Svizzera passando da Milano. Avevo un po' di paura alla stazione Centrale, dovevo aspettare la coincidenza per Zurigo in piena notte: mi sono seduto sulle valigie per timore che me le rubassero. La mia vita imprenditoriale è incominciata così, mi favoriva essere giovane e la passione, forse facevo anche un po' di tenerezza alla clientela che mi ascoltava».
Quando l'azienda ha fatto il salto di qualità?
«Papà ha allargato il laboratorio, siamo arrivati a 30 operai, siamo cresciuti e sono arrivati nuovi ordini. Gli anni '70 sono stati di cambiamento per me, mi sono sposato, ho avuto tre figli, il primo è mancato a sei mesi, poi sono venuti Giorgia e Edoardo. Mia moglie Paola Buratto mi ha affiancato nei viaggi, anche lei proviene da una famiglia di imprenditori del settore di Crocetta del Montello. Ci siamo conosciuti a una Fiera della Scarpa di Bologna».
Ma non ci sono soltanto scarpe nella sua attività
«Volevo vedere cosa poteva esserci di interessante anche negli altri settori, così con un cugino che trattava legnami abbiamo fatto affari in Germania e in Austria. Nel 1965 è nata Eurocomp (Euro compensati), il legno era un prodotto sempre invariato e questo rappresentava una rivoluzione per me che facevo collezioni seguendo le mode che cambiano. La ricerca è perpetua, il nostro lavoro non ha un punto d'arrivo. Nel legno siamo rimasti dieci anni, è stato l'inizio della diversificazione: sono seguite le campagne, poi una tenuta in Toscana sulle colline senesi e un ex convento; oggi sono 500 ettari, anche con riserva di caccia».
Un'esperienza anche nel mondo dell'editoria?
«Ero nel gruppo di imprenditori veneti che a metà Anni Ottanta ha acquistato Il Gazzettino. Il primo direttore Gustavo Selva ha dormito qualche mese a casa mia in attesa di sistemarsi. Poi c'è stata la lunga e fortunata direzione di Giorgio Lago. E' stata un'esperienza importante e assorbente, come imprenditori abbiamo imparato molte cose dal confronto con un mondo diverso. Dopo vent'anni abbiamo ceduto il giornale a Caltagirone».
Quando il marchio Caovilla è uscito dal mucchio?
«Ho collaborato strettamente con Valentino per trent'anni e cinque con Chanel e altrettanti con Dior, ho prodotto a lungo per loro, anche se non davo mai tutta la produzione, altrimenti comandavano loro. Nel Duemila ho detto: Basta! Da adesso produciamo solo Renè Caovilla. E abbiamo incominciato ad aprire negozi col nostro marchio, tra poco saranno una trentina. Siamo presenti nel mondo e in prima fila, con i nomi più importanti. Abbiamo aperto in questi giorni a Las Vegas, il prossimo negozio è a Hong-Kong, poi a Miami. Nel Duemila per dieci anni ho avuto accanto mia figlia Giorgia, nel 2009 ho chiesto a Edoardo che era a Milano di affiancarmi per valutare il suo interesse per l'azienda. Giorgia, madre di due bambine, ha scelto di fare un'esperienza propria, sempre nel settore».
Quale modello ha reso famoso il marchio Renè Caovilla?
«Quello col serpente che si attorciglia alla caviglia, ho tratto ispirazione da un bracciale romano che avevo visto al Museo archeologico di Napoli e ho voluto fare un bracciale che potesse avvolgere la caviglia. Continuiamo a produrlo; le idee nascono guardandosi in giro, la creatività è quella che tiene in piedi tutto. Volevo il piede protetto ma libero. Certo sono importanti anche i testimonial e ne abbiamo avuti di eccezionali: da Nancy Reagan, con foto con dedica, all'attrice Nicole Kidman, alla cantante Rihanna, ma la mia musa resta Sharon Stone».
Cosa resta della Riviera del Brenta come Distretto della Scarpa?
«Dagli Anni '60 al Duemila il Distretto della scarpa della Riviera del Brenta ha vissuto grandi momenti. Poi c'è stato un cambio generazionale che l'ha un po' spenta. Oggi in Riviera è restato poco, quelli rimasti sono stati acquistati, fabbriche comprese, dai nomi grossi francesi. Fortunatamente manteniamo 20 mila addetti tra calzaturifici e indotto, ma sono tutti anonimi: i marchi sono quelli francesi. Però, non va dimenticato che quelli che sono andati avanti hanno mantenuto una professionalità che ha fatto sì che i grandi nomi da Yves Saint Laurent a Dior, da Vuitton a Chanel a tanti altri venissero qui a produrre le loro scarpe. Il Distretto chiuderà anche quest'anno in attivo, esporta quasi interamente la produzione. Sarà fatica delocalizzare un'arte, perché qui c'è davvero arte. Ed è un'arte che viene da lontano: i calegheri sono a Venezia dal Duecento. Sono stati i nobili veneziani che venivano sul Brenta in villeggiatura a portare gli artigiani che hanno insegnato mestieri nuovi in una zona che era agricola».
 
Ultimo aggiornamento: 21:09 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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