«Io, vittima di violenza, cinque anni per avere una sentenza»

Sabato 3 Agosto 2019 di Vanna Ugolini
«Io, vittima di violenza, cinque anni per avere una sentenza»
«I testimoni ci sono?» chiede la giudice prima di cominciare il processo. «Ne mancano due, c'è solo una teste della difesa», risponde il pm. D'altra parte il processo per molestie, lesioni e minacce è cominciato nel 2014. Tra rinvii e udienze saltate, l'ultima è arrivata a luglio 2019. Comprensibile che un testimone non venga, magari è andato a vivere altrove, ha un altro lavoro, non ha più voglia di ricordare quello che ha visto e, magari, dopo tanto tempo, non lo ricorda più nemmeno nei dettagli. Lei, F. 45 anni, quello che il compagno le ha fatto lo ricorda bene. Anche se l'avesse voluto dimenticare, non avrebbe potuto: ha dovuto fare quel racconto tante volte: davanti ai poliziotti, al pm, ai giudici che via via sono cambiati e hanno voluto risentirla. Per il suo bene, certamente. Ma dopo cinque anni, F. - e come lei tante altre vittime di violenza, che hanno avuto la fortuna di essere testimoni a un processo e non vittime di un femminicidio - è ancora dentro quella storia e fatica a ricominciare. Perchè nelle storie di violenza non ci sono lieto fine ma la speranza di nuovi inizi, sempre difficili da trovare.

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Una storia come tante. Quella di F. è una storia come tante, che si replicano ogni giorno nei tribunali italiani. E' di questo, di questi tempi vuoti, dove le vittime sono lasciate sole - e spesso "tornano indietro", ritrattano, addirittura ricominciano una relazione con il proprio carnefice, perchè, forse, il niente, il vuoto è peggio di una vita nella quale hai una routine consolidata di violenza ma hai anche una casa e qualche soldo per mandare i figli a scuola - che bisognerebbe occuparsi.

F. poi è stata fortunata, rispetto a tante altre. A questo processo una testimone è comunque tornata. E' la volontaria che ha raccolto F. davanti a un negozio, quando, dopo l'ennesima lite, dopo la minaccia con un coltello, F. aveva deciso di finire con quel rapporto.
La volontaria ricorda. E le sue parole sono anche il racconto di quello che manca, nella vita quotidiana di una vittima di violenza, perchè possa essere effettivamente e sostanzialmente tutelata. La testimone ricorda F. che sale in macchina senza giacca, anche se fa freddo, sottobraccio da una parte il suo gatto e dall'altra la borsetta in cui è riuscita a infilare due scatolette di cibo per animali. La volontaria l'ha portata a casa sua, perchè F. non vuole stare in un centro antiviolenza che sarebbe lontano dal suo posto di lavoro, e almeno il lavoro non vuole perderlo. Altre strutture intermedie di accoglienza nella città dove vive F. non ce ne sono. La volontaria ricorda che quando F. accende il telefono arrivano decine e decine di messaggi dal suo ex compagno. A volte minacce e insulti, a volte promesse di un futuro più tranquillo insieme.
E, ancora, di quando andarono a prendere i vestiti da casa, insieme, senza che ci fosse una macchina delle forze dell'ordine disponibile a passare davanti a casa. E quando all'uomo fu dato il divieto di avvicinamento al negozio dove F. lavorava ma lui entrava ed usciva per dimostrarle che lei, alla fine, non poteva fare nulla. F. chiamava la polizia ma quando gli agenti arrivavano lui se n'era già andato. E, alla fine, rischiava di passare lei per una mitomane. «Per darle una mano - dichiara la volontaria alla giudice - mi sono messa io dentro al locale, testimoniando che il suo ex in effetti entrava ed usciva con un atteggiamento sfrontato». La giudice del processo non ha fretta - e questa è un'altra fortuna per F. - e chiede particolari, vuole capire, lascia il tempo perchè i ricordi affiorino. E' una giudice preparata, che sembra conoscere la grammatica della violenza, capire perchè le prime testimonianze di una vittima non sempre sono lucide e razionali, sa quali sono i  meccanismi che incantenano la vittima al carnefice e sa che non costituiscono una attenuante. Una fortuna che, però, dovrebbe essere la norma, un diritto per le vittime. E non è sempre così.
L'udienza finisce e si chiude con un abbraccio tra la testimone e la vittima. Alla prossima, fissata per ottobre, ci sarà la sentenza e saranno passati cinque anni dalla denuncia.

Cinque anni per una sentenza. Cinque anni di alti e bassi, di solitudine, un lavoro perso, problemi economici, cadute e ripartenze. Tutto da sola. Tanti spazi vuoti da riempire.
«Come stai? Cosa fai adesso?». F. racconta che ha dovuto lasciare il lavoro perchè comunque lui si faceva vedere e questo era un problema per i clienti. Ha fatto la badante, perchè stare chiusa in una casa con una persona anziana le dava sicurezza.
In realtà vorrebbe dire: non era questa la vita che avrei voluto per me ma prendo quello che viene, prendo quello che resta e guardo avanti. F. non sarà mai una donna da copertina, non sarà mai una donna da record. Ma F. e tante come lei, che resistono, vanno avanti, portano i compagni violenti in tribunali e aspettano per cinque anni una sentenza, un pezzo di storia la stanno facendo.
Ora F. ha ottenuto il reddito di cittadinanza. «Mi danno 280 euro per l'affitto e 500 euro per il resto». Ma la cosa che ha più sorpreso F. è che «ho trovato qualcuno che si dà da fare per me. Mi stanno aiutando a cercare un lavoro. E' una bella sensazione avere qualcuno che ti aiuta».
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