L’artista Zehra Doğan: «Sono convinta che l’avvenire sia nelle mani delle donne»

Martedì 13 Ottobre 2020 di Valentina Venturi
Zehra Doğan

Zehra Doğan, artista e giornalista curda con cittadinanza turca, sarà in Italia.

Il simbolo nel mondo della resistenza e della battaglia per i diritti il 16 ottobre è al Teatro della Corte di Genova per ricevere il "Premio Ipazia all’Eccellenza Femminile Internazionale", un riconoscimento che rientra nel programma della XIV edizione del "Festival dell’Eccellenza al Femminile". Fino a sabato 24 ottobre tra Genova e Sestri Levante si alternano incontri, proiezioni, performance e spettacoli, per una manifestazione organizzata da Schegge di Mediterraneo e diretta da Consuelo Barilari, che quest'anno ha come titolo “Fattore D – Donne per un Nuovo Rinascimento”.

Cosa significa ricevere il "Premio Ipazia all’Eccellenza Femminile Internazionale"?

«È davvero molto importante il fatto che l’impegno di una donna nella lotta per l’emancipazione femminile sia onorato dalle donne stesse. Quando l’ho saputo dalla mia curatrice in Italia, Elettra Stamboulis, mi sono commossa; mi ha dato conferma che la lotta che porto avanti è compresa e sostenuta dalle donne e ha un ruolo importante nell’insieme delle lotte delle donne».

È stata ingiustamente arrestata nel 2016 e in seguito condannata per aver pubblicato sui social un dipinto in cui raffigurava la distruzione di Nusaybin dopo gli scontri tra le forze di sicurezza e gli insorti curdi. Di tutte le esperienze dolorose che ha ingiustamente subito, c’è una scelta che non rifarebbe?

«Quando guardo indietro, non c’è niente di cui mi penta e non mi dico mai “se fosse possibile tornare indietro nel tempo non lo rifarei”, ma mi ripeto spesso: “Avrei dovuto lavorare di più, avrei potuto lottare maggiormente».

I social media sono un mezzo di espressione utile o troppo manovrabile?

«Dipende dal modo in cui sono utilizzati. Se non sapete come utilizzare una cosa potete diventare suo ostaggio. Io non sono una persona che utilizza molto i social network. Ci sono miei amici che mi aiutano ad amministrare i miei account. Per questa ragione, non posso rispondere a questa questione in un modo molto dettagliato».

Cosa accade in Turchia?

«Attualmente le violenze sulle donne sono esponenziali.  Le donne non possono che farsi ascoltare attraverso i social network. In questo modo l’opinione pubblica può essere messa al corrente delle violenze e unirsi a queste voci che si alzano. In Turchia è attraverso i social che possiamo rimanere in contatto le une con le altre e che possiamo organizzarci. Questo mostra allo stesso tempo che hanno un lato coinvolgente, con un uso individuale: i social possono essere utilizzati, manovrandoli abilmente, in maniera giusta e in un modo o nell’altro».

Nei 1022 giorni di carcere non ha mai smesso di creare, nonostante il divieto. Ha lavorato usando materiali di recupero tessile e cartaceo di ogni genere e utilizzando come colori bevande, cibo e sangue. Dove ha trovato la forza per continuare a creare?

«Nella mia fede. Fede nella lunga lotta, condotta dalle donne e allo stesso tempo nella lotta storica del mio popolo per la liberazione delle nostre terre occupate».

In prigione, lei e altre donne hanno creato il quotidiano Özgür Gündem Zindan (Free Agenda Dungeon), il cui nome è un'opera teatrale su Özgür Gündem (Free Agenda), una pubblicazione con sede a Istanbul che si rivolge al pubblico curdo. In carcere esiste la solidarietà femminile?

«Si tratta di donne che sono state gettate in prigione per aver voluto difendere una causa, per aver difeso le loro convinzioni e che hanno dato la vita alla lotta per le donne, per i diritti dei bambini e che continuano ugualmente in prigione la lotta per un mondo di pace. Sarebbe possibile che non mostrassero solidarietà le une verso le altre in queste condizioni? Nelle prigioni si trova la solidarietà più potente».

L'artista di strada Banksy le ha dedicato un murale a New York. Cosa spera arrivi a chi apprezza le sue opere d’arte?

«Vorrei che fosse compreso il sentimento di necessità per un mondo senza guerra ancora più globale».

Perché ha preso parte alla fondazione dell’agenzia di stampa Jinha?

«Il linguaggio dei media mondiali è maschilista, i proprietari di questi media, chi li dirige sono la maggior parte uomini, e purtroppo la stampa è sempre fra le mani di pochi monopoli che hanno come obiettivo il profitto. Chi decide le linee editoriali sono i politici che attualmente detengono il potere. Con un tale stato dei fatti, con la pratica del potere di chi fa politica usando il corpo femminile, con la natura sessista di tutte le politiche mondiali, non esiste linea editoriale al di fuori delle norme di genere. È per questa ragione che un gruppo di femministe kurde si sono riunite in Kurdistan e abbiamo fondato Jinha nel 2012. Su queste terre del Medio Oriente dove la guerra pesa gravemente, abbiamo voluto creare un linguaggio ecologico partendo dalla prospettiva che “finché la donna non è libera, il mondo non è libero". Non volevamo che fossero giornalisti uomini  a trattare di donne e di persone LGBTIQ+. ma che fossero le donne stesse. L’agenzia (vietata e chiusa da un decreto del 29 ottobre 2016) peraltro continua attualmente la sua attività sotto il nome di “Jin News”».

Pensa che l’essere donna sia all’origine della sua incarcerazione?

«Perché io faccio parte di un popolo oppresso. Appartengo ad un popolo che lotta perché ha visto la propria identità, la sua lingua, la sua cultura negate e le terre confiscate. Ma, certamente, il fatto di far parte del movimento delle donne mi ha creato una visibilità che mi ha danneggiato. Lo Stato vede le donne come dei nemici, considera le donne che lottano come delle minacce».

Come vede il futuro per le donne?

«Nel mondo c’è una lotta di donne incredibilmente grande, importante e radicata. Sono convinta che l’avvenire sia nelle mani delle donne, quelle che combattono contro il sessismo e per i loro diritti e credo che questa lotta riuscirà a raggiungere il suo obiettivo».

Se potesse disegnarlo, come rappresenterebbe il dolore?

«Non è possibile rispondere a questa domanda. Io non voglio mai disegnare il dolore, né pensare a quello che dovrebbe assomigliargli, nemmeno se lo disegno. Se quello che ho creato fino ad oggi mostra il dolore, io non voglio pensare al dolore né tesserne le lodi».

Come vede il suo futuro?

«Vedo una Zehra che possiede e conserva la stessa determinazione, la stessa convinzione ma più anziana»

Ultimo aggiornamento: 14 Ottobre, 22:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA