Angela Caponnetto: «Nelle mie cronache sui migranti ho notato la resilienza di tante mamme»

Lunedì 10 Agosto 2020 di Valentina Venturi
Angela Caponnetto inviata televisiva per RaiNews24
Angela Caponnetto, palermitana trapiantata a Roma, è da anni in prima linea nel documentare il fenomeno delle migrazioni. Di recente ha scritto “Attraverso i tuoi occhi. Cronache dalle migrazioni” (Piemme edizioni): da inviata televisiva per RaiNews24 ha voluto fissare sulla carta le immagini che scorrono in tv e che lei prima osserva, perché «sono gli occhi dei migranti che passano attraverso i miei. Ma c’è un altro occhio che viene raccontato nel libro ed è quello della telecamera, che a sua volta è visto attraverso il cameramen. Senza la sensibilità di un cameramen non realizzeremmo mai un buon servizio, l’immagine è fondamentale».
 
Una donna che osserva gli sbarchi dei migranti dà qualcosa in più?
«Ho un’immagine registrata nel cervello attraverso i miei occhi. L’immagine di due mamme sul molo che tengono in braccio due bambini, uno dei due è un neonato di nove mesi. Li portano in braccio sotto il sole cocente in attesa di essere trasferite da Lampedusa in Sicilia. È ovvio che il mio occhio, che è di una donna, si poggia sulla forza e la resilienza di queste mamme che con un’energia indescrivibile tengono in braccio i loro figli».
 
Gli ha parlato?
«Certo. Quando gli chiedo: “Ma perché avete portato questi bambini, che cosa vi spinge?”; mi hanno risposto: “Vogliamo un futuro per questi bambini ed è l’unica cosa che ci spinge, poi ci affidiamo a dio”. L’ho notato io che sono una donna, i miei colleghi uomini diciamo un po’ meno…».
 
In altre parole?
«Forse lo sguardo di una donna in queste cose capisce quale è la nostra forza in contesti così complicati e che comunque difendono la propria dignità e quella dei loro figli».
 
Per una donna migrante la penalizzazione è duplice?
«Decisamente, perché spesso vengono anche abusate. Ultimamente anche accade anche gli uomini, ma alla donna viene distrutta la dignità, la femminilità. Arrivano devastate dall’esperienza. Non hanno diritto alla normalità ed è molto difficile recuperarle».
 
Cosa sta succedendo a Lampedusa?
«In questo momento (28 luglio, ndr.) ci sono 800 persone nell’hotspot e continuano gli sbarchi che arrivano dalla Tunisia e dalla Libia. Ci sono molte donne, la maggior parte ovviamente sono uomini perché sono più forti, possono affrontare il viaggio con una capacità di sopportazione maggiore di una donna, ma ci sono anche donne e bambini piccoli».  
 
Ha un ricordo particolare?
«La donna per eccellenza che ricordo è una libica recuperata a mare nel dicembre 2017 dalla nave Ong Aquarius. Qui salgono a bordo 500 persone in diversi soccorsi. Ci sono persone di tutti i tipi: vengono dalla Libia, dalla Palestina dalla Siria e ci sono moltissimi nord africani. Le donne e i bambini vengono messi in una sala a parte, al coperto. Tra loro c'è una libica che non vuole stare insieme alle donne africane: per lei è inconcepibile sentire l’odore della pelle africana. Fa capire che vuole andare via».
 
Vengono divise?
«La libica chiede una diversa sistemazione ma non c’è disponibilità di spazio: deve stare per forza con le donne nigeriane. Alla fine di questo viaggio dopo sei giorni la libica fa amicizia non solo con la nigeriana, ma anche i bambini tra di loro. Prima di scendere si toglie il suo velo, il Hijab che portano le donne musulmane, mi guarda e mi dice: “Se avessi saputo che la mia vita poteva essere così diversa non mi sarei sposata, sarei comunque partita, sarei andata in Germania e avrei fatto una vita diversa. Non avevo capito niente”. Solo le donne possono avere questo tipo di intelligenza per capire che qualcosa si è sbagliato e che si può recuperare».
 
Perché ha scritto questo libro?
«Mi sono resa conto in tutti questi anni che la televisione o un articolo letto nell’immediatezza, il giorno dopo lo perdi. Invece ricomponendo gli elementi del mio lavoro con le migrazioni è venuto fuori un enorme bagaglio di esperienze di cronaca che mi ha convinto come ogni anno, ogni esperienza, ogni persona incontrata facevano parte di un anello di una catena, di un cerchio che non si chiude. Come una chiocciola che non si chiude mai e insegue se stessa ma nel contempo si ricompone in diversi elementi. Mettere nero su bianco le esperienze fatte in tutti questi anni mi hanno consentito di non disperdere quello che avevo raccolto».
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