La Cassazione era stata lapidaria: l'aspetto fisico di una donna che si dichiara vittima di stupro è del tutto «irrilevante» e si tratta di un «elemento non decisivo» per valutare la credibilità sua e dei suoi aggressori.
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I fatti risalgono a marzo 2015. La 22enne peruviana si era recata in ospedale con la madre dicendo di essere stata stuprata, pochi giorni prima da un coetaneo, mentre un amico faceva il palo. I tre erano usciti a bere una birra, ma la situazione era degenerata. Gli imputati - difesi dagli avvocati Gabriele Galeazzi e Fabrizio Menghini - si sono sempre professati innocenti dicendo che i rapporti erano consensuali. Il 6 luglio 2016 erano stati condannati in primo grado con l'accusa di aver violentato la giovane dopo averle somministrato un mix di alcol e droga, ma furono assolti in appello il 23 novembre 2017.
La parte civile, assistita dall'avvocato Cinzia Molinari, e il procura generale di Ancona Sergio Sottani avevano fatto ricorso in Cassazione, accolto con rinvio alla Corte di Appello di Perugia che oggi li ha ritenuti colpevoli, confermando la condanna di primo grado. In particolare, la Corte d'appello di Ancona (composta in quel caso da tre donne), aveva stabilito che «non è possibile escludere che sia stata proprio» la giovane - definita in un passaggio la «scaltra peruviana» - «a organizzare la nottata 'goliardica', trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri, per poi iniziare a provocare» uno dei due imputati «(al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo 'Vikingo' ... con allusione ad una personalità tutt'altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare)».
Secondo la Cassazione, però (la sentenza è del 5 marzo dell'anno scorso), la ricostruzione della vicenda fatta dai giudici d'appello «si basa fondamentalmente sulla incondizionata accettazione del narrato degli imputati», i quali avevano sostenuto la consensualità del rapporto. Una versione, prosegue la Suprema Corte, «che viene ritenuta riscontrata sul piano obiettivo da elementi non decisivi» e «irrilevanti in quanto eccentrici rispetto al dato di comune esperienza rispetto alla tipologia dei reati in questione, come l'aspetto della vittima». Secondo gli ermellini, inoltre, i giudici di merito non hanno svolto alcun «serio raffronto critico» con il verdetto di condanna emesso in primo grado: senza il necessario «supporto probatorio» le dichiarazioni dei due imputati sul consenso al rapporto sessuale sono state prese per buone a fronte della brutalità del rapporto in seguito al quale la ragazza si è dovuta sottoporre a intervento chirurgico e trasfusione.