Formiggini, le leggi razziali e il gesto estremo dell'editore ribelle

Giovedì 26 Gennaio 2023 di Riccardo De Palo
Formiggini, le leggi razziali e il gesto estremo dell'editore ribelle

«Non oso più andar fra la gente/ perché ciaschedun si vergogna/ che mi abbiano messo alla gogna/ innocente», scrive l'editore ebreo Angelo Fortunato Formiggini (Modena, 18781938) nel suo denso memoir, Parole in libertà, scritto all'indomani della promulgazione delle leggi razziali. È lui, Il fuoruscito che si priva della vita lanciandosi dalla Torre della Ghirlandina per «dimostrare l'assurdità malvagia dei provvedimenti», il protagonista del nuovo, avvincente libro di Marco Ventura - abituale firma del Messaggero - appena pubblicato da Piemme.

Un personaggio da riscoprire, nell'imminenza della Giornata della Memoria, che si celebra domani. Perché Formiggini fu un pioniere, un incompreso, un perseguitato. Non era un personaggio facilmente incasellabile, né malleabile. È stato mal visto dagli antifascisti, perché conviveva con il regime. E il fascismo lo tollerò, per poi abbandonarlo al suo destino, quando non risultava più politicamente conveniente.

L'umorismo come arma


Fu lui a coniare, e a usare diffusamente, il termine editoria. Come editore, appunto, ebbe il merito di capire l'importanza dell'umorismo, creando la collana I classici del ridere, ispirandosi alla Secchia rapita del suo concittadino secentesco, Alessandro Tassoni. Formiggini si faceva scudo dell'ironia in un'epoca che mancava, drammaticamente, di senso dell'umorismo. Da liceale, volle riprodurre la storica battaglia di Zappolino, celebrata da Tassoni, e far finalmente scoppiare la pace tra le città di Bologna e di Modena. Si vide scippare dal governo il suo Istituto per la Propaganda della Cultura Italiana, che diventò poi Fondazione Leonardo, e si vendicò con un libello, La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo, laddove per ficozza in romanesco si intende il bernoccolo da lui ricevuto, l'imperdonabile affronto subito.


Formiggini, come molti al suo tempo, si mosse con il beneplacito del regime. Creò la prima «biblioteca circolante», con servizio a domicilio. Vagheggiò a lungo l'idea di creare una grande Enciclopedia italiana, ma anche questa idea gli fu sottratta dal suo principale antagonista, il ministro Giovanni Gentile, che nel 1925 passò il progetto a Giovanni Treccani. Per distruggere la sua reputazione, furono tirate in ballo scorrettezze finanziarie inesistenti. Lui reagì scherzando, dicendo che avrebbero potuto finire per accusarlo di falso in atto pubblico, perché i genitori avevano registrato la sua nascita a Modena, e non nel podere di famiglia di Collegara.


«Né ferro, né piombo, né fuoco / Posson salvare / La Libertà/ Ma la parola soltanto./ Questa il tiranno spegne per prima./ Ma il silenzio dei morti/ Rimbomba nel cuore dei vivi», scriveva questo coraggioso editore, con parole che andrebbero lette e soppesate attentamente, in ogni epoca in cui sia a rischio lo stato di diritto, la democrazia. Ventura racconta la parabola di Formiggini avvalendosi di minuziose ricerche storiche, alternando - come spiega nell'introduzione - capitoli in cui parla il protagonista ad altre parti di tenore più saggistico. Ma la voce di Formiggini non risulta mai alterata, o falsamente romanzata. Ventura riesce (mescolando parole sue a parole dell'autore che corrispondono a parole sue, e parafrasi di sue frasi) a riprodurre il suo tono, i calembour, il dialetto. Un po' come amava fare - in maniera quasi medianica e con meno fonti dirette a disposizione - la grande Marguerite Yourcenar.
Il fuoruscito racconta le origini di Formiggini, «una delle grandi famiglie ebraiche di Modena, storicamente legate alla Corte estense dalla quale hanno ricevuto nei secoli privilegi e discriminazioni, ovvero deroghe alle disposizioni contro gli israeliti che i duchi concedevano alle famiglie più in vista». E poi, la sua vita straordinaria. Il sogno di fare l'editore. Una donna non ebrea, estranea al suo mondo, la pedagogista Emilia Santamaria, che riesce a farsi strada in un'epoca in cui il femminismo non era neppure pensabile. È un grande amore, che travalica rapidamente ogni avversità, ogni differenza sociale. Si chiamano sempre con i loro soprannomi, Nino e Nina. Non hanno figli naturali, ma adottano Nando, che alla morte del padre, «resterà orfano di padre per la seconda volta».

La fine di un editore scomodo


Formiggini investe, usa il suo patrimonio perché crede in un ideale. Ma quando il re firma le leggi razziali sente mancargli la terra sotto i piedi. I conti non tornano, i debiti si accumulano. E anche la sua bella villa sul Campidoglio, a Roma, con quel giardino di cui è tanto fiero, rischia di venire distrutta. Emilia cerca di dissuadere il marito dal suo proposito di uccidersi - «orienta il tuo spirito in modo che il poi non rappresenti l'arrivo in fondo all'abisso» - ma Angelo è ormai determinato. E anche nell'ultimo saluto, non rinuncia all'ironia: «Estrema raccomandazione: siate rassegnati alla mia morte, non fate recriminazioni. Non guastatemi le uova nel paniere».
Formiggini sale «centonovanta gradini fino alla Sala dei Torresani, i guardiani della città, poi altri fino alla cuspide della Torre alta». Il suo gesto è preparato, fino ai minimi dettagli. E quando si lascia cadere nel vuoto dalla Ghirlandina, urlando «Italia, Italia, Italia!», ha le tasche piene di soldi, affinché nessuno pensi che si sia ucciso per banali questioni finanziarie.
 

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