Legittima la presenza dello Stato in economia, ma inadeguato il peso culturale di chi la gestisce

Sabato 18 Luglio 2020
Egregio direttore,
non scorgo cavalli di razza nel recinto parlamentare in grado di suggerire iniziative concrete al presidente del Consiglio Conte per superare una crisi economica che prevedo lunga e tormentata. Le proposte del premier fondate soprattutto sulla promessa di cospicui aiuti dall'Ue, ancora da discutere e deliberare, coi paesi del Nord Europa guidati dall'Olanda restii a concedere prestiti agevolati e concessioni di denaro a fondo perduto al Belpaese, mi fa dubitare sull'esito trionfalistico ipotizzato da Conte nei suoi proclami notturni. Inoltre l'aggiunta di un fervore statalista nell'esecutivo, rappresentato dai casi Alitalia, Ilva e Autostrade, mi pare un improvvido ritorno al passato con conseguenze funeste per il futuro dei conti dell'Erario. Perché questo accadrà, quando si vuole passare prima dalle assunzioni e retribuzioni per sistemare amici e parenti con dovizia, anziché anticipare un piano industriale serio di risanamento reale per raggiungere l'obbiettivo. Il momento critico che stiamo attraversando richiederebbe ben altre misure per affrancare il Paese dai molti guai che lo affliggono dopo cinquant'anni di politica sconsiderata ed irresponsabile, che far risorgere lo Stato imprenditore per correggerli. Mala tempora currunt...
Renzo Nalon
Dolo (Venezia)



Caro lettore,
il tema della presenza dello Stato nell'economia va affrontato con grande pragmatismo. Ci sono fasi della storia in cui al potere pubblico può e deve essere richiesto di farsi carico, in via transitoria, di funzioni e compiti che sarebbero proprie dell'imprenditoria privata. Quella che stiamo vivendo, dopo la crisi del Covid, è probabilmente una di queste fasi. Per evitare che pezzi importanti e strategici della nostra economia scompaiano o vengano acquisiti a prezzo di svendita da gruppi stranieri, si deve valutare anche l'ingresso nel capitale azionario dello Stato. Se ciò avviene in via transitoria (cioè con l'intento di restituire poi al mercato queste aziende) e non con la logica del salvataggio a carico del contribuente di imprese ormai decotte, ma con l'obiettivo di garantirne la continuità e consentirne un effettivo rilancio, non è un misfatto. Anzi: è una scelta di sistema e di tutela dell'interesse nazionale. Purché però siano chiari i presupposti e gli obiettivi. Se, al contrario, si intendono usare i soldi pubblici per operazioni che hanno finalità politiche (ossia di raccolta del consenso) prima che economiche, allora il rischio di ripetere tragici errori del passato e di pubblicizzare solo le perdite e non i profitti, è evidente. Purtroppo l'approssimazione e l'assenza di visione strategica con cui in questo periodo sono gestite alcune importanti partite economiche-industriali, non fa sperare per il meglio. Quando di ascolta un importante ministro parlare a vanvera di libero mercato o un altro suo collega definire public company una società che tutto sarà fuorché una società a capitale diffuso (perché questo significa public company, non società pubblica) perché sarà controllata per oltre il 50 per cento da una società dello Stato, allora c'è da preoccuparsi. Non perché lo Stato aumenta il proprio peso nell'economia. Ma perché è del tutto inadeguato il peso specifico e culturale di chi è chiamato a orientare le scelte economiche dello Stato.
Ultimo aggiornamento: 16:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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