Caro Direttore,
Lettera firmata
Venezia
Caro lettore,
la banana regalata a un giocatore di colore non può essere considerata uno scherzo neppure tra virgolette: è un gesto idiota e razzista che va non solo condannato a parole, ma anche punito. Far discendere però da questo episodio conclusioni assolute e giudizi così definitivi sul rugby mi sembra, da molti punti di vista, sbagliato. Posso comprendere il suo disagio o la sua amarezza nell'accettare le simpatie fasciste e l'infatuazione mussoliniana di suo nipote, ma non è generalizzando o etichettando politicamente uno sport che si aiuta un adolescente a maturare convinzioni politiche meno emotive, a discernere e a comprendere le complessità del passato e del presente. Il rugby in Italia ha vissuto sin dai suoi inizi uno strano rapporto con la politica. Prima fu osteggiato dal fascismo per le sue origini anglosassoni, poi venne esaltato dal regime ed eletto come una delle sue discipline simbolo (Il giuoco del rugby, sport di combattimento, deve essere praticato e largamente diffuso tra la gioventù fascista, proclamò il segretario del Pnf, Achille Starace), non caso la Fir, la Federazione italiana, venne fondata nel 1928. Proprio per queste ragioni, per diversi anni nel dopoguerra, il rugby è stato guardato con sospetto da ambienti antifascisti. Ma da allora molte cose sono cambiate. Il rugby non è più lo sport maschio e virile propugnato dai gerarchi. È lo sport del terzo tempo, del rispetto dell'avversario dentro e fuori il campo. È anche la disciplina che vede due paesi storicamente divisi per ragioni religiose e politiche come la Repubblica d'Irlanda e l'Irlanda del Nord, unirsi nella stessa nazionale. La palla ovale non è di destra o di sinistra. È semplicemente un bellissimo sport, figlio, nel bene come nel male, del proprio tempo. Ma non mettiamogli addosso etichette che non ha e che non merita.
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