Dimesso l'ultimo paziente: chiude il reparto Covid di medicina d'urgenza al "Goretti"

Mercoledì 17 Giugno 2020 di Giovanni Del Giaccio
L'abbraccio pubblicato sulla pagina del Goretti

Un’immagine che vale più di tante parole, un abbraccio tra colleghi e la frase: «La consapevolezza della morte ci incoraggia a vivere... Oggi chiude il reparto “Covid 19” della Medicina d’urgenza di Latina». Un’immagine che - ai tempi dei social - è stata condivisa sulla pagina facebook del gruppo “Santa Maria Goretti”. L’ultimo dei 60 pazienti positivi passati per la medicina d’urgenza è stato dimesso. 

A dirigere il reparto è Massimo Aiuti, uno dei medici più esperti del “Goretti”. È lui a raccontare tre mesi vissuti in apnea e la formula che si è rivelata vincente. «Abbiamo ragionato, letto, ci siamo confrontati, ci hanno aiutato molto anche le prime 23 autopsie fatte allo Spallanzani alle quali sono stati fatti partecipare specialisti di tutti gli ospedali per capire cosa accadeva a chi era colpito dal virus». Dai primi di marzo a oggi la strada è stata lunga e difficile, ma un capitolo si è chiuso, anche se l’attenzione resta elevata.

«Siamo partiti sapendo che con certi parametri il paziente andava intubato, le linee guida dicevano quello, ma all’inizio non avremmo avuto i posti per tutti in rianimazione e così abbiamo preso in carico noi alcuni casi. L’utilizzo dei caschi Cpap, la terapia, il confronto costante con i colleghi, ha consentito di avere ottimi risultati». Dalle autopsie era arrivata un’indicazione importante, cioè che la malattia era sistemica e non solo polmonare, inoltre che l’infiammazione dei piccoli vasi al di sotto degli alveoli polmonari era dannosa in caso di intubazione: «La pressione dei macchinari della rianimazione aumentava i problemi - spiega Aiuti - e da questo dato abbiamo deciso di fare quella che gli inglesi chiamano la gentle ventilation, monitorando in continuazione i pazienti». L’uso del casco prolungato - quando in realtà va utilizzato per massimo 4-5 giorni - è frutto sempre di una intuizione: «Appena lo toglievamo i parametri crollavano di nuovo, allora abbiamo deciso di tenerlo e d’accordo con pneuomologi e infettivologi abbiamo portato avanti contemporaneamente strategia respiratoria e medica». Così il casco è stato usato fino a 21 giorni, per esempio, e sui farmaci si è sempre deciso di comune accordo tra colleghi, i malati e i familiari sono stati seguiti e supportati capillarmente, ad esempio con le videochiamate quotidiane. Un gioco di squadra vero e proprio: «Ringrazio tutti, è stata un’esperienza difficile e grandiosa, fatta con il mio personale e con tanti altri professionisti». E destinata, anche, a riviste scientifiche ma che - insieme alle altre - ha fatto della Asl di Latina una delle sette realtà prese a modello in Italia per affrontare l’emergenza.

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Il momento peggiore? «L’inizio, quando abbiamo dovuto trasformare i 16 posti in Covid e rivedere anche alcune cose dal punto di vista strutturale». Ci sono stati anche operatori contagiati... «È successo e lo abbiamo affrontato, ma senza timori, abbiamo avuto quattro casi, stanno bene per fortuna, ma questo dimostra la grande contagiosità del virus, dobbiamo continuare a fare attenzione. Siamo stati tutti in quarantena fino a ieri, potevamo solo stare a casa e andare al lavoro».

La soddisfazione più grande? «Sono due, il caso di Schintu e quello di un paziente giovane, arrivato in condizioni disperate, la mattina dopo mi vedo salutare e chiedo chi avessero messo al suo posto, invece era lui e stentavo a crederci».

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E il dispiacere? «La morte di Caterina Allemand, la presidente dell’Ail, ha lottato in ogni modo». L’abbraccio pubblicato sui social riassume cosa? «Il grande coinvolgimento emotivo nel reparto». Che da ieri non è più Covid.

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