A 22 anni volontario in Amazzonia:
ecco la mia eccezionale esperienza

Venerdì 7 Marzo 2014
2
Caro Gazzettino,

sono uno studente ventiduenne di Montebelluna (Treviso) che ha terminato nel settembre 2013 il corso di laurea in Storia e ha deciso di partire per la foresta amazzonica e restarci 6 mesi. Prendere la decisione di accantonare per un anno gli studi, allontanarsi da familiari ed amici e di lasciare le comodità della nostra quotidianità non è stato facile, ma alla fine ho deciso di fare questo passo nel buio forse perché spinto dalla voglia di conoscere una parte del mondo molto diversa da quelle che ormai la globalizzazione ha superficialmente omologato una alle altre (mi riferisco al fatto che nei Paesi del primo mondo si trovano quasi gli stessi servizi, si incontrano gli stessi schemi architettonici, ecc.; non faccio certamente riferimento alla cultura dei vari popoli).



Purtroppo, vista la situazione politico-economica in cui si trova il nostro Paese, da alcuni anni molti giovani hanno iniziato di nuovo a lasciare il nostro bellissimo e bistrattato Paese per cercare un’opportunità di lavoro e di vita all’estero. A volte alcuni di loro Vi hanno scritto per riferire come si sono trovati nella nuova realtà che li ha accolti. È per questo motivo che ho pensato di scrivere anch’io qualche riga sull’esperienza che sto facendo come volontario nella Missione Santa Rosa di Puerto Esperanza, una cittadina situata nella selva amazzonica del Perù.



Le motivazioni che mi hanno spinto qui come volontario non sono quindi economiche (motivo principale per cui la grandissima maggioranza dei giovani purtroppo deve partire), ma questo non mi sembrava un motivo per non poter raccontare come vanno qui le cose.



Puerto Esperanza è il capoluogo della Provincia di Purus, circoscrizione territoriale facente parte della regione Ucayali. Partendo da Pucallpa, il capoluogo regionale, vi si arriva solo con dei piccoli monomotori ad elica, dai quali, nelle quasi 2 ore di viaggio, si può vedere una landa sterminata di vegetazione incontaminata. Distante solo una cinquantina di chilometri dalla frontiera brasiliana, la città – ma sarebbe opportuno chiamarla paese, visto che la popolazione urbana si aggira più o meno attorno ai 1000 abitanti – è bagnata dal fiume Purus, lungo il corso del quale si trovano 44 comunità indigene, diversificate tra loro per stirpe, usi e costumi e lingua. I gruppi etnici presenti sono Sharanahua, Cashinahua, Junicuy, Mastanahua, Culina, Piro, Ashaninka, Asheninka, Amahuaca e Mashco.



Tutte queste comunità sono più o meno civilizzate, ad eccezione dei Mashco, gli unici non contattati: infatti, questi vivono in piena foresta – a più di tre giorni di barca da Puerto Esperanza – senza vestiti (per come li intendiamo noi occidentali), hanno uno stile di vita nomade e praticano il cannibalismo nei confronti dei loro defunti; ci sono anche racconti di persone uccise per essersi trovate sfortunatamente in contatto con loro quando questi si sono avvicinati a comunità civilizzate.



Sulla parola “indigeno” ci sarebbero moltissime cose da dire: tutti infatti siamo indigeni del proprio paese, ma le persone che vivono qui affermano sempre di essere “indigene”, come per caratterizzarsi e differenziarsi dagli altri peruviani – la cosa interessante è che però non sanno dirti quali sono i prerequisiti per essere definito “indigeno”. Voi cosa ne pensate? Vi lascio con questa domanda, anche perché ora non ci sono il tempo e lo spazio per approfondire questo tema.



Posso affermare che in moltissime circostanze nelle comunità si incontrano casi di denutrizione, specialmente tra i bambini, e di analfabetismo e/o di incomprensione del castigliano e di usanze tribali che, per esempio, portano uomini e donne a mangiare in tavoli separati. Il matrimonio dei figli viene ancora combinato dai genitori nelle comunità più distanti da Puerto Esperanza, ma con il tempo le cose stanno cambiano ed i più giovani ora possono trovare autonomamente la persona con cui vogliono instaurare una relazione affettiva.



Si incontrano comunque casi di ragazzine tredicenni ammogliate a uomini di 30 anni (è per questo motivo che spesso si vedono ragazze molto giovani, sulla ventina, che già devono mantenere 3-4 figli), ma anche di ragazzi quindicenni accasati con donne sopra la trentina. La mentalità predominante è quella di aspettare di sentire quello che decide il capo della comunità, portando così ad all’annullamento di tutti i componenti della stessa della capacità di prendere decisioni in modo autonomo. Comunque, questa è un’eredità culturale che cambierà nel corso di decine e decine d’anni.



Per quanto riguarda i servizi presenti nel Purus, nel capoluogo non c’è una goccia di acqua potabile; la luce c’è solo dalle 17 alle 23 per i privati, mentre di mattina è presente solo per le istituzioni (quando però il solo generatore di corrente presente in città si rompe, tutti siamo costretti a stare al lume di candela); il pronto soccorso non è attrezzato per nulla e non vi è il personale sufficiente per farlo funzionare al meglio (manca perfino un medico chirurgo, quindi potete immaginare a cosa va incontro una persona in stato di salute grave che necessiterebbe di un intervento chirurgico immediato); le strade in mattoni sono pochissime; non vi è alcuna coltivazione di frutta e verdura; infine – ci sarebbero però tantissime altre cose da dire – il costo della vita è molto alto, visto che tutto viene portato con l’aereo da Pucallpa o via fiume dal Brasile.



Se, comunque, nel capoluogo sono presenti questi scarsi servizi, nelle comunità manca tutto: non c’è acqua potabile, né luce; non ci sono strade; i modi di sostentamento sono la caccia e la pesca e non vi è alcuna coltivazione di frutta e verdura, tranne casi sporadici di coltura di ananas, banane, altri tipi di frutta e peperoncini.



Questa condizione di arretratezza è dovuta al fatto che manca una strada che connetta tutto il Purus con il resto del Perù e con gli Stati confinanti: infatti, il Purus vive in un isolamento quasi estremo, se non fosse per gli aerei che permettono una minima comunicazione con l’esterno. Invece, il fiume Purus permette solo una minima comunicazione interna alla Provincia – avrete notato infatti che, per determinare una distanza, ho indicato i giorni necessari per arrivare in un posto con la barca. Immagino che vi starete chiedendo perché manca una strada. Ora cercherò di spiegarvelo in breve.



Nel 2004, su proposta del Governo (convinto dalla WWF), è stata creata una commissione mista per la creazione di un Parco nella Provincia. Nonostante i promotori del Parco volessero dimostrare che il progetto fosse appoggiato dalle popolazioni residenti, non vi sono stati né una consultazione popolare, né una votazione che potessero provare quanto sostenevano. Quando mancavano solo le firme dei vari rappresentanti delle comunità per far approvare l’intero progetto del Parco, l’intera popolazione del Purus si è riunita ed ha chiaramente preso una posizione contraria alla creazione di questo Parco. In questi frangenti i promotori del progetto sono riusciti però a convincere (si vede anche con qualche promessa di ricompensi) un piccolo gruppo di capi indigeni (stiamo parlando di una decina di capi su un totale di più di 40) a firmare le carte che servivano ad approvare l’intero piano.



La cosa interessante però è che nemmeno i membri delle comunità rappresentate dai capi firmatari sapevano che all’ultimo questi ultimi avrebbero appoggiato il piano della creazione di questo Parco che ha completamente isolato il Purus dal resto del Perù. Oggi questo Parco si estende per un milione e mezzo di ettari, cioè per i cinque sesti dell’intera provincia purusina, mentre sotto il controllo della municipalità locale sono rimasti solo trecentomila ettari. Ecco il perché di questa condizione di arretratezza generale dell’intera provincia.



Data questa introduzione del luogo, ora parlo della mia esperienza. Sono arrivato a Puerto Esperanza il 6 novembre e sono stato cordialmente accolto nella Missione Santa Rosa dal Padre Michele “Miguel” Piovesan, trevisano anch’egli (nato a Pralongo di Monastier di Treviso) emigrato in Argentina in gioventù, dalla prof.essa Rosalvina Aliaga Apaza, direttrice dell’istituto che si occupa di impartire l’educazione religiosa nelle scuole situate nelle varie comunità, e dal diacono/prof. Josè Manuel Ortiz Medina.



Le cose di cui mi sono accorto immediatamente sono il caldo costante che c’è tutto il giorno e il disturbo continuo che danno gli insetti, quasi come se non volessero mai permetterti di avere un momento di assoluto riposo. La natura, inutile dirlo, qui la fa da padrone. Per un verso, vivere a più stretto contatto con la natura mi fa piacere, in quanto nella nostra cara Italia certe persone si preoccupano solo di cementificare tutto per il proprio tornaconto senza preoccuparsi delle conseguenze che questa pratica causa (allagamenti, alluvioni, impoverimento della flora locale, ecc.); dall’altro, la sua presenza incontrastata rende difficili molte cose – come camminare, visto che si ha costantemente a che fare con strade allagate e fangose – e, se non tenuta in ordine dove già controllata, rovina ciò che l’uomo aveva costruito in precedenza.



Il problema dell’isolamento della città e della provincia mi ha subito colpito di persona: infatti, ho dovuto aspettare più di 10 giorni prima che la mia valigia con tutti i miei effetti personali arrivasse con l’aereo da Pucallpa. L’isolamento però lo riscontro ogni giorno nella mancanza di varietà di generi alimentari e nella difficoltà che si riscontra per muoversi e per comunicare con gli altri. Tanto per fare due esempi, per tornare a Puerto Esperanza da Santa Rosa, la cittadina di frontiera brasiliana distante dal capoluogo purusino solo una cinquantina di chilometri, ci vogliono 12 ore di navigazione controcorrente – lo stesso tempo che impiega l’aereo per coprire la distanza tra Lima e Madrid! –, mentre la connessione internet molto lenta mi impedisce di comunicare con facilità con i miei familiari e conoscenti in Italia.



Parlando delle attività che svolgo nella Missione, posso dire che mi sto dedicando al tuttofare. La mia responsabilità principale è quella di gestire le mucche ed i tori presenti (24 in tutto) nella Missione, a partire dalla pulizia della stalla fino ad occuparmi della loro salute (per quanto mi è possibile, non essendo veterinario). Una delle sfide personali per cui ero venuto era anche quella di produrre formaggio, burro, ricotta, jogurt e mozzarella senza aver mai munto una vacca prima di allora. Posso dire con un po’ di soddisfazione che la cosa mi è riuscita, quindi ora anche Puerto Esperanza può godere di una serie di prodotti locali derivati dal latte. Ovviamente, la qualità del formaggio prodotto non è assolutamente da comparare con quella dei formaggi italiani che possiamo incontrare sulle nostre tavole, ma per me, assolutamente ignorante per quanto riguarda il settore caseario, è già stato un traguardo la sua produzione.



Altre attività a cui mi dedico sono la produzione di miele, la preparazione di alcuni piatti in cucina per tutti i componenti della Missione, la gestione di un gruppo di operai ingaggiati per la realizzazione di un progetto di coltivazione di frutteti (per fare in modo che anche il Purus produca la sua frutta in quantità notevoli), l’impegno come giornalista nella rivista locale “Palabra Viva” (tutti i numeri della rivista si trovano nel sito web www.parroquiapurus.org) e la partecipazione come operatore in Radio Esperanza, la radio locale.



La radio è l’unico mezzo di comunicazione di cui gli indigeni possono usufruire. Questi, non avendo a disposizione nelle loro comunità né antenne per i cellulari, né telefoni pubblici, non possono parlarsi tra loro se non attraverso messaggi radio. I messaggi che ascoltavo nei primi giorni dopo il mio arrivo mi facevano molto ridere: si sentivano cose del tipo “… ricordati di portarmi le scarpe ed il materasso…” o, molto sul personale, “…Amore mio, se non torno a casa da una settimana non è perché ti ho lasciata, ma perché non ho a disposizione benzina per tornare con la barca…”. Con il passare dei giorni però ho appunto capito quello che dicevo sopra, cioè che la radio è il solo mezzo di comunicazione a disposizione di tutti.



Le persone che vivono qui sono semplici, in quanto vivono di poco. Come in tutto il mondo, si incontrano individui buoni ed onesti come altri poco raccomandabili. Quello che però si riscontra in tutti gli indigeni, ma anche nei peruviani venuti qui per motivi lavorativi, è la mancanza di professionalità e di educazione. Ora, questa è una condizione tipica che si riscontra in situazioni di sottosviluppo, ma io eviterei di dire che è causata dal sottosviluppo. Infatti, lo sottosviluppo non è dovuto dalla povertà (la ricchezza si crea appunto con lo sviluppo), ma dalla mancanza di conoscenza, di visione delle cose, di visione della propria realtà e di quelle confinanti e dalla non volontà di crescere e superarsi. Qui le persone si accontentano di mangiare quel poco che la natura gli offre e poi passano tutto il giorno nell’amaca o a mendicare viveri e qualsiasi tipo di cosa – dalla benzina ai biscotti – nella sede municipale, magari facendo leva sul fatto che hanno votato per il partito al governo, mettendo in luce senza problemi morali e giuridici – nessuno infatti sembra lamentarsi della cosa e denunciarla alla autorità competenti – l’esistenza di un vero e proprio clientelismo.



Per quanto riguarda i dirigenti locali, oltre al fatto di appoggiare il clientelismo di cui sopra e di impegnarsi in programmi sociali sempre legati a fini politici, in loro constato la mancanza di una vera e propria idea di cosa sia lavorare al servizio del cittadino. Alcuni servizi non vengono dati a tutti, ma solo ad alcuni in base a criteri sconosciuti: per esempio, il cavo televisivo è stato predisposto gratuitamente solo per le abitazioni vicine alla piazza principale, mentre gli altri sono costretti a pagarsi l’allacciamento se vogliono usufruire di questo servizio. Questo per dire che la cosa pubblica non si dovrebbe gestire a discrezione di chi è al governo in quel momento, ma secondo precise regole che devono essere precise, chiare, trasparenti ed a conoscenza di tutti.



Per concludere, molti degli aspetti sopracitati, soprattutto quello riguardante la mala gestione della cosa pubblica, si prestano facilmente per fare un parallelo con quanto succede nella nostra amata Italia: infatti, come i purusini devono iniziare a protestare e ad organizzarsi per non veder più calpestati i propri diritti basilari, così tutti noi cittadini italiani, desiderosi di veder cambiare in meglio la nostra Patria, dobbiamo iniziare a reclamare (in modo educato si intende, ma comunque in maniera ferma, assidua ed instancabile) per vedere rispettati i nostri diritti e non dobbiamo più abbassarci ad accettare quelle situazioni di mal servizio ed ingiustizia a cui ci troviamo di fronte ormai ogni giorno nel nostro Paese.



Ovviamente, per far ciò sarà innanzitutto necessario fare un piccolo sforzo di volontà per destarci da questa situazione di indifferenza, sconforto ed inerzia – come se fossimo anestetizzati – che da anni soprattutto i giovani – io in primis – e tutta la società nutrono nei confronti della gestione della cosa pubblica; non si può solo aspettare che le istituzioni cambino da sole e facciano tutto per noi. Ognuno è causa del proprio male o del proprio successo.



Quando la connessione internet lo permette posso rispondere all'indirizzo mail luca.polles@virgilio.it.

Per comunicare con il Padre Miguel Piovesan potete scrivere a misionpurus@yahoo.es. Il sito web sulla Parrocchia-Missione Santa Rosa di Puerto Esperanza e su tutte le attività che si svolgono qui per cercare di migliorare la situazione è: www.parroquiapurus.org



Luca Polles

trevigiano nella Foresta amazzonica
Ultimo aggiornamento: 09:52
Potrebbe interessarti anche
caricamento

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci