Yara, la Cassazione: «Bossetti la stordì e la portò nel campo, il Dna di Ignoto 1 è il suo»

Venerdì 23 Novembre 2018
Yara, la Cassazione: «Bossetti la stordì e la portò nel campo, il Dna di Ignoto 1 è il suo»

«Le numerose e varie analisi biologiche effettuate da diversi laboratori hanno messo in evidenza la piena coincidenza identificativa tra il profilo genetico di Ignoto 1, rinvenuto sulla mutandine della vittima, e quelle dell'imputato». 

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Tutte le ipotesi volte a gettare un'ombra sulle indagini, a screditare la prova scientifica, sono rigettate con forza dalla Cassazione, che il 12 ottobre scorso ha confermato la condanna all'ergastolo di Massimo Bossetti, per l'omicidio di Yara Gambirasio, la giovane ginnasta scomparsa all'uscita dalla palestra a Brembate di Sopra il 26 novembre 2010 e ritrovata morta tre mesi dopo in un campo.

Non c'è dubbio: l'evidenza scientifica - rinvenuta dopo anni di indagini, compiute a partire dal dna, incrociato con migliaia di campioni prelevati a tappeto - secondo la prima sezione penale ha «valore di prova piena». 
 

Nelle motivazioni, in 155 pagine redatte dal giudice relatore Stefano Aprile, la Cassazione afferma che la Corte d'assise d'Appello di Brescia ha «ricostruito i fatti con logica e coerente motivazione». Cita la sequenza accertata dai processi di merito: intorno alle 18.55, «dopo aver prelevato la ragazza e averla stordita, l'ha trasportata nel campo a Chignolo d'Isola». «La presenza dell'imputato nella zona è stata correttamente valorizzata come indizio», così come «l'attività professionale» del muratore di Mapello, vista la presenza sul cadavere di «materiale o prodotti per l'edilizia», «la presenza di un veicolo simile» a quello dell'imputato «davanti alla palestra nel tardo pomeriggio del fatto», «l'assenza di un alibi».

Mai, ricorda la Corte, Bossetti «era stato in grado o aveva voluto riferire alla moglie, ai cognati e agli altri familiari cosa avesse fatto quel pomeriggio e quella sera» e i giudici d'appello hanno «logicamente affermato che non si tratta di un semplice silenzio, giustificato dal mancato ricordo a distanza di anni, ma piuttosto una volontaria reticenza». La sentenza risponde ai venti motivi di ricorso della difesa, che sollevava diverse obiezioni, contestando la prova del dna, la 'catena di custodià, i kit utilizzati. I giudici del 'Palazzacciò biasimano i «reiterati tentativi di mistificazione degli elementi di fatto», «amplificate da improprie pubbliche sintetizzazioni». Alla richiesta di una perizia, che fino all' ultimo Bossetti e i suoi avvocati hanno ripetuto, rispondono perentori: vi si ricorre in caso di «evidenza dell'utilizzo di una metodica errata o superata e dell'esistenza di un metodo più recente e più affidabile» e «nulla di tutto questo emerge dagli atti».

Infine, replicano alle suggestioni che hanno accompagnato questo processo, respingendo la tesi «complottista» legata «alla necessità di dare in pasto all'opinione pubblica un responsabile»: «la genericissima ipotesi della creazione in laboratorio del dna dell'imputato, oltre ad appartenere alla schiera delle idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà, è manifestamente illogica». Così come, secondo la Cassazione, è «fantasiosa» l'ipotesi di «una contaminazione volontaria da parte di terzi» prima del ritrovamento del corpo.

Ultimo aggiornamento: 20:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA