Taranto, stanno già spegnendo il Gigante però nessuno vuole più il ritorno dello Stato

Giovedì 7 Novembre 2019 di Mario Ajello
Ex Ilva, doppio incontro a Taranto sul futuro dell'acciaieria: i campo Conte, sindacati, Ad e Procura
dal nostro inviato
TARANTO Sbuffano ancora le ciminiere. Ma il rumore del fuoco e del ferro del Gigante - così qui chiamano l'ex Ilva - comincia a diventare meno forte. Sono iniziate le procedure per il graduale spegnimento degli altoforni. E si stanno abbassando le temperature e il ritmo degli altri macchinari. «Ma davvero?», chiedono gli operai che all'esterno sono in presidio e in sciopero - per ora solo quelli della Cisl - ai colleghi dentro lo stabilimento e la risposta è crepuscolare: «Stiamo addormentando il Gigante, secondo le indicazioni dell'azienda».
In realtà la situazione è ancora fluida, anche se da Roma arrivano cattive notizie sull'incontro a Palazzo Chigi e le accolgono così: «È andato male. Diventeremo pescatori o emigranti?». L'ansia dei diecimila lavoratori si trasforma via via in angoscia. C'è chi va a pregare alla parrocchia del rione Tamburi, a ridosso dello stabilimento, dedicata al Divin Gesù Lavoratore con tanto di effigie di Cristo in mezzo alle ciminiere e alle tute blu. E padre Preziuso offre conforto al suo gregge smarrito e racconta ai curiosi: «Taranto è stato il cuore della Magna Grecia e qui una tragedia greca si sta svolgendo».

BAR E PARROCCHIA
Di fronte alla parrocchia, nello squallore di questa piazza intossicata, c'è il Mini Bar, da cui si vedono più funerali che matrimoni, e chi non lavora all'ex Ilva parla dell'ex Ilva con altre parole. Più di sfida liberale, o perfino liberista, che di disperazione. Ecco un piccolo trasportatore, che lavora nell'indotto della siderurgia, si chiama Giulio Vecchione, beve un caffè, dice: «C'è una sola soluzione. Dare a Mittal carta bianca e dirgli anche grazie se accetta. Allo Stato converrebbe, non può pagare a 10.000 persone la cassa integrazione per 10 anni o più. E converrebbe pure agli operai e alla città: bisogna preoccuparsi non dei posti di lavoro ma del lavoro». Il barista Ignazio D'Andria è più cupo: «Il Gigante ormai è morto, bisogna soltanto vedere chi e come organizzerà i funerali». E questa per lo più è la sensazione della città.

Davanti alla fabbrica si forma al mattino un piccolo corteo di mamme che hanno perduto i figli per tumore - uno si chiamava Giorgio, 15 anni, un altro Francesco, 15 anni anche lui - e occhio ai primi segni di disperazione degli operai. E infatti prima i gipponi della polizia non c'erano, intorno al perimetro dello stabilimento, e ora sono arrivati. Si teme il peggio? Intanto, il primo sciopero. Non di massa. Una sola sigla, la Cisl. Un assembramento più simbolico che altro. Ma a conferma che i sindacati sono spaccati. Marco Bentivogli, riformista doc, leader dei metalmeccanici Cisl, ha dato la linea dello sciopero contro il governo che «sta facendo fuggire Arcelor Mittal, e noi non possiamo stare fermi». La posizione che Landini aveva fatto arrivare alla Cgil di qui era improntata alla prudenza, in linea con la non belligeranza nei confronti del governo delle sinistre, ma poi anche questa sigla ha deciso che domani sciopererà, insieme alla Uil.

Se poi si guarda lontano da qui, attraverso i fumi che stancamente continuano a uscire dalle ciminiere, ma già somigliano al passato di un'illusione (quella dell'Italia industriale e del Mezzogiorno fatto di lavoro e non di mance di Stato), e ci si rivolge verso il mare viene alla mente la rimetta di un grande, Alberto Arbasino: «Ossigenarsi a Taranto è stato un grave errore / mi sono innamorato di un incrociatore». Ora il problema è che senza l'ex Ilva, se si dovesse verificare la chiusura, neanche quasi più il porto ci sarebbe. «Il nostro traffico - spiega Sergio Prete, presidente dell'Autorità portuale - è legato all'80 per cento all'attività della siderurgia».
Ma intanto si è fatta sera. E Augusto, 32 anni, addetto a uno degli altoforni ancora incandescenti ma tra qualche tempo chissà, chiede a tutti: «Notizie da Roma?». Nessuno risponde, nessuno ha sensazioni buone e la sua voce sembra trasformarsi in singhiozzo: «Nessuna parte politica può dirsi innocente, tutti insieme hanno fatto solo teatrino».

Ma al Bar Mini, ora che siamo all'aperitivo, triste come tutto il resto, un piccolo gruppo di commercianti parla così: «Gli operai sono costosi e improduttivi. E loro come tutti devono ricordare che non è Acelor Mittal che ha bisogno di Taranto, ma è Taranto che ha bisogno di una Acelor Mittal o di Jindal o di qualche altro privato. Lo Stato già ha fatto troppi danni. Sarebbe ora di guardare avanti con coraggio. Anche rinunciando a qualche posto di lavoro». C'è chi vive questa ipotesi come il male necessario - all'epoca della crisi del mercato siderurgico, che coinvolge e che sovrasta l'ex Ilva - ma decine di operai entrando per il turno notturno, dalle 23 alle 6, vorrebbero non uscirne più. Restando abbracciati al Gigante, che ha sempre meno bisogno di loro.
 
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