Terza dose e sierologico, ecco perché non serve fare il test prima del richiamo

La rilevazione della presenza e del livello degli anticorpi non è indicativa di un’infezione acuta in corso

Martedì 9 Novembre 2021 di Alessandro Strabioli
Terza dose, ecco perché non serve fare il test sierologico prima del richiamo
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Terza dose del vaccino anti-Covid: è sul richiamo che si gioca la vera partita per scongiurare la quarta ondata. In Italia come in gran parte d'Europa tornano infatti a salire tutte le curve dell'epidemia, con contagi, decessi e ricoveri nelle terapie intensive in aumento. Allora, proprio in vista della somministrazione della terza dose, in molti si chiedono se sia utile effettuare prima un test sierologico - che verifica la presenza nel sangue degli anticorpi al nuovo coronavirus - così da poter decidere se ricevere o meno il richiamo.

Ma, come molti esperti hanno già spiegato da tempo, il sierologico in questo caso sarebbe inutile se non fuorviante. 

 

Terza dose e sierologico, il nodo anticorpi 

È chiara, in tal senso, l'indicazione la circolare del Ministero della Salute che chiarisce i criteri di utilizzo di test molecolari (RT-PCR) e test sierologici per l'identificazione di anticorpi IgM e IgG: «La rilevazione della presenza degli anticorpi mediante l’utilizzo di test molecolari non è comunque indicativa di un’infezione acuta in corso, quindi della presenza del virus nel paziente e del rischio associato alla sua diffusione l’assenza di rilevamento di anticorpi non può escludere completamente la presenza di un’infezione in atto in fase precoce o asintomatica e il relativo rischio di contagiosità dell’individuo».

Non è ancora specificato, infatti, a quale linea di immunità (anticorpale o cellulare) sia associata la protezione immunitaria per il Covid e di conseguenza quale sia la durata effettiva della stessa. Al momento vi è evidenza di persistenza di anticorpi neutralizzanti (che impediscono l’entrata del virus nella cellula) fino a 6 mesi (in alcuni individui anche 8 mesi) , mentre i linfociti B e T specifici possono essere identificati anche oltre gli 8 mesi. È però importante ricordare che non tutti gli individui hanno la stessa risposta immunitaria alla vaccinazione e soprattutto alla malattia naturale, infatti se nel caso del vaccino, la dose che si riceve è stata testata ed è sufficiente ad indurre una risposta immunitaria efficace (a meno di condizioni specifiche del soggetto vaccinato), nel caso dell’infezione naturale la quantità di virus a cui ci si espone non è standard e potrebbe indurre una risposta immune non efficace o non duratura.

 

Allo stato attuale non è indicato fare test sierologici (test sul sangue) per rilevare la presenza di anticorpi contro Sars-CoV-2 prima di sottoporsi alla vaccinazione. Inoltre l’infezione da SARS-CoV-2, pregressa o in atto, non costituisce controindicazione né espone ad effetti collaterali aumentati al vaccino. «Arriveremo ad avere correlati di protezione ma in questo momento non li abbiamo. Chi dice che dobbiamo essere guidati dai livelli di anticorpi non riflette lo stato delle conoscenze, lo stato dei dati. Questa è la presa di posizione della Fda qualche mese fa. I test con anticorpi non dovrebbero essere utilizzati per valutare i livelli di immunità», ha detto a tal proposito Alberto Mantovani, presidente di Fondazione Humanitas.

In over50 infezioni pregresse producono più anticorpi

Chi ha contratto il COVID-19 produce anticorpi. Ma chi è anziano ne produce di più. È quanto emerge da un piccolo studio della Université de Montréal pubblicato oggi su Scientific Reports, che ha analizzato la risposta anticorpale di 32 adulti canadesi risultati positivi nel 2020 al SARS-CoV-2 e non avevano avuto bisogno di ricovero ospedaliero. I pazienti erano stati reclutati dal Centre hospitalier del'Université Laval. L'analisi della loro risposta anticorpale è stata fatta a 4 e 16 settimane dalla diagnosi di SARS-CoV-2 tramite test PRC. Il primo dato ad emergere è che gli anticorpi continuavano ad essere presenti nel sangue anche a 16 settimane dalla diagnosi. Ma ad attirare l'attenzione dei ricercatori è stata anche la correlazione tra risposta anticorpale ed età dei pazienti: quelli con più di 70 anni avevano risposte superiori alla media mentre al di sotto dei 49 anni si registravano risposte anticorpali inferiori alla media.

Gli anticorpi prodotti dopo un'infezione da parte del ceppo originale del virus hanno reagito anche alle varianti emerse nelle ondate successive - B.1.351 (Beta, Sud Africana), B.1.617.2 (Delta, Indiana) e P.1 (Gamma Brasiliana) - ma a in misura ridotta del 30-50% circa. Anche nel caso delle varianti, tuttavia, era evidente un gap correlato all'età. Nel dettaglio, gli over 70 hanno mostrato risposte dal 15% (ceppo nativo) al 30% (varianti) al di sopra della media della coorte complessiva, quelli di età compresa tra 50-59 o 60-69 anni hanno mostrato risposte entro il 10% di la media, e quelli di età compresa tra 18 e 49 anni hanno mostrato risposte dal 18% (nativo) al 30% (varianti) al di sotto della media. Dallo studio è emerso, infine, che in un paziente con età inferiore a 49 anni l'infezione pregressa non ha prodotto anticorpi, ma la vaccinazione sì.

Ultimo aggiornamento: 10 Novembre, 22:37 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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