Long haulers, il caso dei pazienti Covid che non riescono a guarire anche dopo mesi

Mercoledì 2 Dicembre 2020 di Cristiana Mangani
Long haulers, il caso dei pazienti Covid che non riescono a guarire anche dopo mesi

Ammalarsi di Covid-19 e non riuscire a guarire. Ne sa qualcosa anche Mattia, il paziente numero 1 di Codogno che ha faticato non poco a liberarsi dal “mostro”. La sindrome è quella dei long haulers, ovvero di quei pazienti che continuano ad accusare disturbi per mesi, anche se leggeri. Può colpire fino al 10 per cento dei contagiati, ed è quindi molto incisiva nella vita dei post Covid, sebbene se ne parli poco. Ufficialmente si tratta di persone che risultano negative al tampone, ma che continuano ad avvertire sintomi particolarmente debilitanti e persistenti: stanchezza, debolezza, fiato corto, eritemi, confusione e perdita di memoria, quella che viene chiamata “una nebbia” nel cervello.

E ancora:dolori muscolari, ansia, e persino caduta di capelli.

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Gli strascichi di questa malattia, dunque, causano non soltanto tamponi che tardano a negativizzarsi anche quando i sintomi scompaiono, ma al contrario i disturbi continuano per lungo tempo anche se il test di controllo è ormai negativo. L’ultimo studio scientifico su questa “sindrome” viene dai ricercatori francesi del Tours University Hospital che hanno seguito 150 pazienti non critici da marzo a giugno. Due terzi hanno riportato sintomi fino a 60 giorni dopo essersi ammalati e più di un terzo si sentiva ancora male o era addirittura in condizioni peggiori rispetto a quando era iniziata l’infezione. La ricerca, pubblicata lunedì 5 ottobre sulla rivista Clinical Microbiology and Infection, si è concentrata su pazienti che avevano avuto una malattia di lieve o moderata entità, proprio perché gli altri studi su questo tema a livello internazionale finora avevano monitorato persone reduci da ricoveri in ospedale (per malattia moderata o seria) o in terapia intensiva. I sintomi descritti erano principalmente: perdita dell’olfatto e del gusto, mancanza di respiro e affaticamento ed erano più probabili in pazienti di età compresa tra i 40 e 60 anni e in chi avesse avuto bisogno di ricovero.

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Un altro studio risale a luglio scorso, ed è quello dei Centers for Disease Control and Prevention Usa (CDC): ha evidenziato che il 35% dei pazienti Covid-19 non era tornato al consueto stato di salute due o tre settimane dopo il tampone negativo che ne aveva decretato la guarigione. I più colpiti erano persone con malattie croniche, ma quasi 1 su 5 tra giovani e adulti di età compresa tra 18 e 34 anni (senza patologie preesistenti) ha riferito di non essere tornato al normale stato di salute (da 14 a 21 giorni dopo il test).

Tutto questo non fa che incidere sul sistema sanitario e sulla vita lavorativa delle persone. In Italia Morena Colombi ha fondato un gruppo di auto-aiuto su Facebook che si chiama “Noi che abbiamo sconfitto il Covid” e raccoglie le storie di chi è ufficialmente guarito, ma sta male da mesi. «Le adesioni sono arrivate e in breve tempo mi sono accorta che tutti, chi più chi meno, abbiamo gli stessi malesseri. Molte volte ci liquidano come depressi o ipocondriaci. I nostri problemi invece sono reali, ma nessuno sembra volerci dar credito», ha raccontato l'operaia di Agrate, che è stata paziente in Brianza. Lo scopo del gruppo è anche quello di far riconoscere una “sindrome Post Covid”, come si sta facendo in altri Paesi, per avere il rimborso delle spese sanitarie effettuate e centri a cui rivolgersi.

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 I sintomi persistenti confermano che il Covid rimane vivo e infettivo dopo oltre sei mesi nell’intestino del 50% dei long-haulers, probabilmente nascondendosi in alcuni organi del corpo. I pazienti, però, non sono più infettivi, è il sistema immunitario che continua a percepirne la presenza. Non solo, esistono casi pubblicati nelle ricerche scientifiche di long-haulers che dopo mesi dall’infezione acuta e multipli tamponi negativi a causa di altre patologie (cancro) e delle conseguenti cure che possono portare a immunocompromissione, vedono il virus riattivarsi causando una acutizzazione della sua virulenza e un aggravamento importante della malattia.

La richiesta di interventi da parte di questi pazienti post Covid è talmente cresciuta che anche nel resto del mondo la questione viene affrontata con la nascita di Centri ad hoc. A New York, ad esempio, è stato aperto un centro per l’assistenza post-Covid al Mount Sinai, ed è stato necessario assumere nuovo personale per riuscire ad affrontare il grande numero di persone che si è presentato per essere curato. Stessa cosa in Gran Bretagna, dove sta nascendo una rete di cliniche “Long Covid”. Succedeva anche con altre forme virali: Ebola, Sars e Mers.

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I sintomi sono i più vari e quello della caduta dei capelli viene segnalato ai medici da almeno il 30 per cento delle persone. Per fortuna è transitorio, ma può causare la caduta di intere ciocche, qualcosa che genera un grande allarme nei pazienti. Non è la prima volta che un sintomo associato al coronavirus inizia a essere preso in considerazione proprio sulla base dei dati raccolti dai medici: questo succede perché Covid-19 è un’infezione del tutto nuova, per cui le conoscenze si costruiscono nel tempo. Un caso simile ha riguardato i geloni sulle dita dei piedi dei bambini, un sintomo reso noto già alla metà di aprile 2020, per cui poi sono state avviate ricerche.

Come uscirne? In America stanno trattando decine di pazienti long Covid con una serie di farmaci che non necessitano di ricetta medica (anti-istaminici H1/H2 come Pepcid/famotidina e Zyrtec/cetirizina per citartene solo alcuni, economici e potenzialmente sicuri, in aggiunta a supplementi di vitamina D e C). Sembra che facciano effetto, ma prima di farne uso è assolutamente necessario chiedere sempre a un medico.

 

Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 00:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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