Covid, «così il virus attacca il fegato»: studio (Italia-Usa) dimostrato per la prima volta al mondo

Giovedì 13 Maggio 2021
Covid, «così il virus attacca il fegato»: studio (Italia-Usa) dimostrato per la prima volta al mondo

Il Covid attacca il fegato. Ricercatori dell'università americana di Yale e dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo hanno dimostrato «per la prima volta al mondo» come il coronavirus pandemico attacca il fegato.

Lo annuncia l'Asst bergamasca, riportando i risultati di un lavoro pubblicato sul “Journal of Hepatology. Il processo patologico all'origine del danno epatico associato a forme gravi e mortali di Covid-19 è «un'alterazione della vascolarizzazione dovuta all'eccessiva produzione dell'interleuchina IL-6, una citochina che regola la risposta immunitaria dell'organismo».

La proteina di conferma così un possibile target terapeutico anti-Covid. Analisi condotte su modello animale nei laboratori dell'ateneo Usa hanno riprodotto per la prima volta l'intero processo - riferiscono dall'azienda socio sanitaria territoriale - confermando il ruolo chiave dell'IL-6 e il meccanismo d'azione descritto dagli studiosi del Papa Giovanni analizzando dati e radiografie di 43 pazienti deceduti a Bergamo per Covid nella primavera del 2020.

 

«Si tratta al momento del primo studio mai pubblicato su modello animale che coinvolge il più grande campione numerico di tessuti umani provenienti da pazienti deceduti per infezione da Covid-19», sottolineano gli esperti. Il virus Sars-Cov-2 - spiegano in base ai risultati osservati - induce le cellule dell'endotelio dei vasi sanguigni che irrorano il fegato a produrre una proteina chiamata interleuchina IL-6 che, in situazioni normali, ha una funzione di regolazione dei processi immunitari. Quando però la sua produzione è sregolata ed eccessiva, l'IL-6 può portare a stati infiammatori anomali. Nel caso di Covid-19, questa cosiddetta tempesta citochinica porta allo stato infiammatorio (endoteliopatia) e alla coagulazione del sangue all'interno dei vasi epatici.

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Le autopsie con prelievo di materiale istologico epatico oggetto dell'analisi sono state effettuate dal direttore del Dipartimento di Medicina di laboratorio Andrea Gianatti e dal collega anatomopatologo Aurelio Sonzogni, ricorda una nota. I dati biochimici e umorali dei pazienti selezionati sono stati analizzati e valutati da Maria Grazia Alessio, Giulia Previtali e Michela Seghezzi della Medicina di laboratorio, analisi chimico cliniche del Papa Giovanni. Fondamentali anche le indagini radiologiche effettuate all'epoca del ricovero dall'Unità di Radiologia del Papa Giovanni. Il direttore Sandro Sironi, docente all'università di Milano-Bicocca alla post Graduate School in Radiologia diagnostica, insieme ai radiologi Clarissa Valle e Pietro Bonaffini, sono tra gli autori che hanno collaborato allo studio.

«I marcatori dell'attivazione delle cellule endoteliali e delle piastrine (fattore VIII, gli enzimi fibrinolitici, D-dimero, l'antigene del fattore di von Willebrand-Vwf) hanno indicato un legame tra danno epatico, coagulopatia ed endoteliopatia - afferma Sonzogni dell'Anatomia patologica dell'Asst Papa Giovanni XXIII - La citochina IL-6, attraverso un processo detto di trans-segnalazione, provoca l'aumento di anticoagulanti (fattore VIII, Vwf) e infiammatori. Si genera anche un aumento delle piastrine nelle cellule dell'endotelio. Abbiamo rilevato l'azione inibitoria da parte dell'inibitore naturale gp130, del farmaco ruxolitinib che era stato somministrato in alcuni di questi pazienti, e di particolari anticorpi (Stat1/3 siRna). Abbiamo trasmesso questa successione di dati e questo modello ai colleghi di Yale, che lo hanno sottoposto a verifica in laboratorio, ottenendo una conferma di quanto abbiamo ipotizzato». 

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Uno dei più grandi studi clinici ad aver valutato il rapporto tra danno epatico e Sars-CoV-2 - evidenziano dall'ospedale bergamasco - aveva rilevato che, su 2.273 pazienti, il 45% aveva un danno epatico lieve, il 21% moderato e il 6,4% grave. I pazienti con danno epatico acuto erano a maggior rischio di ricovero in terapia intensiva (69%), intubazione (65%), terapia renale sostitutiva (33%) e mortalità (42%). Il ruolo dell'infiammazione delle cellule endoteliali era già stato ipotizzato, ma nel caso del fegato non era mai stato dimostrato su tessuto. Inoltre, precedenti ricerche si erano focalizzati finora soprattutto sulla coagulopatia, cioè sull'aumento delle complicanze trombotiche e microvascolari generate dalla risposta infiammatoria del sistema immunitario e derivante dalla tempesta di citochine indotta da Sars-CoV-2. Ora lo studio Italia-Usa torna a porre l'accento sul ruolo dell'endoteliopatia come principale causa di danno epatico rispetto alla coagulopatia, proprio perché sarebbe la causa di quest'ultima.

Tale conclusione suggerisce che l'identificazione precoce dell'endoteliopatia e le strategie terapeutiche per ridurne la accelerazione infiammatoria potrebbero migliorare il trattamento di Covid-19 grave. Il nuovo lavoro conferma poi che l'IL-6 può essere più generalmente un potenziale bersaglio per la terapia mirata della malattia, anche perché il danno risulta essere ubiquitario, cioè diffuso nell'organismo e non limitato al solo polmone. «Dal Papa Giovanni arriva ancora una volta un contributo allo sforzo collettivo della comunità scientifica internazionale per conoscere e quindi combattere in maniera efficace questa malattia - commenta Fabio Pezzoli, direttore sanitario dell'Asst Papa Giovanni XXIII - Ringrazio i nostri professionisti per il rigore scientifico e la serietà con cui stanno affrontando la sfida rappresentata da questo nuovo virus». 

Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 07:09 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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