Coronavirus, infermiere italiano di terapia intensiva a Londra: «Per un mese nel Regno Unito non è cambiato nulla»

Domenica 12 Aprile 2020
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di Caterina Carpanè
Nei giorni in cui il Regno Unito registra un numero sempre più alto di vittime per il Covid 19, Tiziano Bachiorrini, infermiere di Grosseto in Inghilterra dal 2012, racconta la sua esperienza nel reparto di terapia intensive del Chelsea Westminster Hospital di Londra. «Nessuno era preparato al 100%, ci siamo preparati giorno per giorno», spiega Tiziano, che aggiunge: «A un certo punto l’unità ha iniziato ad alzare dei muri tra i letti, dal momento che avevamo solo una stanza di isolamento.

In quel momento ho pensato “ecco si entra nell’emergenza”. Per accedere a quelle stanze bisognava vestirsi e per uscirne bisognava cambiarsi, per poi potersi recare nei luoghi comuni. Ora è ancora diverso: bisogna portare tutto il giorno, in ogni luogo, la mascherina, puoi toglierti solo quanti quando esci dalle stanze singole». Tiziano ammette che «non sono mai mancati i dispositivi di protezione individuale», tuttavia il lavoro si fa sempre più duro: «Se fino a due settimane fa potevo occuparmi di un solo paziente, ora sono passato a quattro. Inoltre sono arrivati in reparto colleghi che non hanno mai avuto esperienza in terapia intensiva e lo stesso vale per i medici, magari oncologi o nefrologi. È molto stancante e preoccupante». Anche nel ritorno a casa, dove lo attendono la compagna e il figlio di dieci mesi: «Ho paura, certo. Ho chiesto in reparto se ci fosse un protocollo, ma nessuno mi ha detto cosa devo fare, Ci hanno dato delle stanze d’hotel vicino all’ospedale, ma ora che i parcheggi sono gratuiti preferisco andare con la mia auto. Metto sempre gli stessi vestiti, arrivo, salgo e mi cambio. Quando torno a casa, mi tolgo le scarpe, le lascio all’ingresso, metto i vestiti in una borsa, passo il gel alle mani e vado in doccia, poi saluto mio figlio. Evito il contatto fisico con la mia ragazza, non la bacio all’arrivo. Per ora va tutto bene, ma un po’ di timore c’è». È schietto Tiziano, quando descrive anche la quotidiana pressione che provoca lavorare in questa emergenza: «Non c’è ancora una cura specifica, un modo per trattare questi pazienti. Magari vedi un miglioramento e poi c’è un degrado in poche ore. È questo che preoccupa. E poi c’è il senso di impotenza: quella di non comunicare con il paziente quando è sedato e intubato, quella di non poter assicurargli che tutto andrà bene e si risveglierà guarito, quella di non permettere alla famiglia di vedere il proprio caro. Non c’è un training per questo, l’esperienza ti aiuta nelle scelte di comportamento». Si poteva forse organizzarsi meglio? «Appena noi, come famiglia, abbiamo saputo di quanto stava accadendo in Italia abbiamo cercato di uscire di meno. Per il resto, qui non è cambiato nulla per un mese. Al di là della dichiarazione sull’ “immunità di gregge” che non condivido, mi chiedo: “Perché non prevenire invece di curare?”».

Ultimo aggiornamento: 13 Aprile, 10:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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