Autonomia, lo Spacca-Italia che svuota Roma: 21 miliardi alle Regioni del Nord e trasloco per gli statali

Sabato 2 Febbraio 2019 di Andrea Bassi
Autonomia, lo Spacca-Italia che svuota Roma: 21 miliardi alle Regioni del Nord e trasloco per gli statali
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Se ne andranno 21 miliardi. Se ne andranno migliaia di dipendenti. Poi toccherà a chi, attorno a quei soldi e a quelle persone, ha costruito la sua attività. Se l’Italia è destinata a restringersi con l’autonomia spinta delle ricche regioni settentrionali, la Capitale, che della Nazione è il centro, non potrà che rimpicciolirsi. Roma, insomma, rischia, nell’indifferenza, di essere condannata al declino. Mancano meno di quindici giorni alla scadenza prevista per presentare al presidente del Consiglio le intese sull’autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, ma il buio è ancora fitto. Quante risorse verranno trasferite dallo Stato alle Regioni? Quanti dipendenti? E quali strutture? «C’è però», spiega l’economista Gianfranco Viesti, che ha presentato una petizione per fermare la secessione dei ricchi e che ha avuto migliaia di sottoscrizioni, «un punto che fino ad oggi è stato trascurato, se non proprio ignorato: dopo la devoluzione spinta chiesta dalle tre Regioni, alle quali presto probabilmente si aggiungeranno altre, si può ancora parlare di Roma come capitale d’Italia?». 
Il rischio, concreto, è che lo svuotamento progressivo delle funzioni amministrative e normative, impoverisca fortemente il tessuto economico della Capitale. «Le amministrazioni alle quali saranno sottratte funzioni», ragiona un alto dirigente pubblico, «si troveranno ad avere una oggettiva ridondanza di personale. Chi lavora sul territorio», spiega, «seguirà la funzione, ma chi lavora nei ministeri no. Per Roma ci sarà un problema gigantesco».

Alla domanda di quanti dipendenti pubblici passeranno dallo Stato centrale alle Regioni, ancora non c’è una risposta certa. La Lombardia ha 412 mila lavoratori del pubblico impiego. I dipendenti regionali e quelli della sanità sono circa 166 mila in tutto, gli altri 246 mila fanno capo allo Stato centrale. In Veneto ci sono 226 mila dipendenti, 32 mila circa della Regione e 60 mila della sanità. Gli altri 134 mila sono comandati dallo Stato. In Emilia Romagna i numeri sono simili: 227 mila dipendenti totali, circa 100 mila dei quali già in capo alla Regione. 

IL MODELLO
Il nodo più delicato è quello della scuola. Personale docente e non docente rappresenta il 30% circa dei dipendenti statali. Se passasse in capo alle Regioni il Veneto, per esempio, si troverebbe a gestire 70 mila dipendenti in più in un sol colpo, ricevendo le risorse necessarie per il pagamento degli stipendi. Se tutte e tre le Regioni che hanno chiesto l’autonomia differenziata seguissero questo modello, il ministero della pubblica istruzione si troverebbe con quasi 240 mila dipendenti in meno. Un taglio del suo personale del 20%. E se è vero che si tratterebbe di lavoratori che già operano in quelle regioni, è altrettanto evidente che la stessa struttura ministeriale romana finirebbe per essere sovradimensionata. Dal ministero degli Affari Regionali invitano alla cautela. Il trasferimento di personale potrebbe essere inferiore. Il Veneto, per esempio, potrebbe “accontentarsi” di inserire nei suoi ruoli, soltanto i professori neo assunti. Chi oggi dipende dallo Stato, rimarrebbe sotto il cappello del ministero dell’Istruzione. Anche se, spiegano le stesse fonti, i pagamenti degli stipendi potrebbero passare dal Tesoro alla Regione. E anche qui, si potrebbe aggiungere, non senza effetti sull’attività di via XX settembre che comunque verrebbe ridotta. «Il problema», spiega Marco Cammelli, dell’Università di Bologna, grande esperto di federalismo, «è proprio questo: ci si occupa solo dei trasferimenti, non di quel che resta. È un trasferimento per sottrazione. Ciò che rimane al “centro” è in un cono d’ombra, con l’illusione di continuare a gestirlo come è gestito adesso. Ma come si può pensare», si chiede il professore, «che gli apparati ministeriali, la conferenza Stato-Regioni, le stesse commissioni parlamentari possano rimanere inalterate difronte a questa differenziazione?». Anche per Luca Bianchi, direttore generale dello Svimez, si tratta di un punto focale. «Le grandi città metropolitane, Roma in testa, hanno molto da perdere e poco da guadagnare con questo neo centralismo spinto delle Regioni. Mi stupisco», dice, «come ancora non si siano mosse». E qui si arriva al problema dei soldi. Secondo Andrea Filippetti e Fabrizio Tuzi, due economisti del Cnr, per cinque delle 23 competenze (15 per l’Emilia Romagna) richieste dalle Regioni, il costo sarebbe di 1,2 miliardi, ma senza il personale. Se si aggiungessero i dipendenti si salirebbe di 10 miliardi, che potrebbero raddoppiare considerando tutte le altre competenze arrivando, appunto, a 21 miliardi. Prendere il personale, insomma, è un punto cruciale. 

IL MECCANISMO
Il meccanismo di trasferimento delle risorse dallo Stato alle Regioni, infatti, sarà quello dei “decimi”.

Una volta calcolate le risorse da trasferire, si sceglierà un’imposta dello Stato sulla quale recuperare il gettito (l’Irpef probabilmente). Così, per esempio, il Veneto invece di restituire a Roma i dieci decimi dell’Irpef raccolta nella Regione, ne restituirà, per esempio, solo otto decimi. In questo modo una “fetta” della torta rimarrà sul territorio a scapito del Centro. Altre Regioni è probabile che seguiranno l’esempio di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. A partire dal Piemonte e dalla Liguria. Sempre più fette, insomma, si sposteranno alla periferia “ricca”, lasciando Roma, sempre con meno risorse, a gestire le regioni “superstiti”. Che impatti avrà sul Pil della Capitale questo depauperamento? Difficile dirlo prima che siano resi noti i testi delle intese fino ad oggi tenuti segreti. Qualche tempo fa, Unindustria, insieme a The European House Ambrosetti, ha stimato che se Roma continua a decrescere allo stesso tasso degli ultimi 8 anni, nel 2030 arriverà ad avere un Pil pro-capite di 25.761 euro, circa il 25% in meno rispetto ad oggi. E una delle ragion individuate è la costante riduzione del «centralismo statale». Negli ultimi anni, spiegano Unindustria e Ambrosetti, «sono stati fatti tagli ai bilanci che hanno destrutturato la macchina statale senza però riformarla». Un piano che il regionalismo differenziato renderà ancora più inclinato. 

Ultimo aggiornamento: 3 Febbraio, 11:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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