ROMA «Se vi chiamano populisti non vi offendete, ma sappiate che non è vero». È quanto va ripetendo Giorgia Meloni ai suoi. E bastano queste parole lapidarie per capire qual è la cifra che la leader di FdI sta dando alla sua campagna elettorale e con quale stile vuole presentarsi all'ingresso di Palazzo Chigi se dovesse entrarvi.
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L'interazione degli utenti con i suoi post è bassa, ma in compenso i suoi video vanno forte. Lui esagera, lei si contiene. Lui esonda, lei no. Se andassero d'accordo, la diversità di approccio alla campagna elettorale potrebbe sembrare un gioco di squadra: e invece non lo è. Salvini deve recuperare centralità e forza, e ribaltare i sondaggi. Con un repertorio che però è sempre quello. Dunque, il viaggio a Lampedusa il 4 e 5 agosto. Le bordate contro il ministro Lamorgese. La condotta da ex e futuro ministro di polizia. E in più, come sempre, la personalizzazione della campagna nel senso del parlare di sé, del proprio corpo e anche di quello degli altri: «Io sudo perché lavoro tanto, Letta non suda perché non si sbraccia...», «Mi sono tagliato la barba per una scommessa con Berlusconi....». E il Papeete? Difficile che dalla festa della Lega a Cervia, che si svolge lì accanto allo stabilimento di Milano Marittima e domenica la star sarà proprio il segretario, non faccia un salto allo stabilimento del suo amico e europarlamentare Massimo Casanova se non altro per vedere l'effetto che fa.
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La Meloni viceversa ha un piano di uscite, tra interviste e altro, molto poco estemporaneo. È rimasta bruciata dall'intervento estremista al congresso della destra spagnola Vox, dove ha ammesso di aver esagerato e infatti «non lo rifarei», è si propone di stare ben attenta a non fare altri inciampi comunicativi. E a cercare, viceversa, messaggi rassicuranti. Quello da «partito produttivista» - tasse, lavoro eccetera - e capace di rassicurare e di rivolgersi trasversalmente agli elettori, anche quelli medio-alti che si sono trovati bene nel periodo Draghi. Tranquillizzare e non spaventare. Una comunicazione di questo tipo le serve non solo per abbassare il livello di allarme che la sua crescita e il possibile ingresso a Palazzo Chigi destano in Italia e all'estero, ma anche perché l'immagine è sostanza. Certo il ricorso al vittimismo non mancherà - «La sinistra sta muovendo urbi et orbi i suoi think tank contro FdI» - ma il vittimismo fa parte del gioco di tutti e un po' paga sempre. Soprattutto però c'è il tentativo della Meloni di recuperare i danni che certe predicazioni del passato hanno arrecato al suo partito (l'idea di Soros come il grande burattinaio nemico dei popoli, un anti-europeismo che effettivamente non riguarda più il primo partito della destra italiana e il più forte nei sondaggi generali) e che rendevano questa parte politica oggetto di notevoli resistenze.
LE GRIDA
L'operazione di rassicurazione è quella insomma con cui la Meloni gioca la partita di questi due mesi. Chi insieme a lei, e sono pochi, ragiona non solo di strategie politiche ma anche di sostanza culturale e di posizionamento comunicativo di FdI racconta di un partito che vuole proporsi come garanzia di stabilità istituzionale e che è ben conscio della drammatica situazione economica e sociale che si troverà ad affrontare se Giorgia dovesse andare a Palazzo Chigi. Altro che destra lepenista o salviniana insomma. Salvini invece fa Salvini: il torrente in piena, irrefrenabile con le sue madonne esibite in tivvù e iper-promettente: «Toglieremo l'Iva su pane e pasta e prodotto alimentari di prima necessità», è il suo ultimo grido di battaglia. E anche Giorgia grida ma ha deciso di non volerlo fare troppo.