Effetto Meloni. La destra che muta non piace ai salotti ma prende più voti

Venerdì 2 Aprile 2021 di Alessandro Campi
Effetto Meloni. La destra che muta non piace ai salotti ma prende più voti

La destra che non c’è, quella che di solito piace agli intellettuali (di solito non di destra) elettoralmente non batte un chiodo.

La destra che c’è – brutta, sporca e cattiva nella considerazione dei medesimi – macina invece voti a palate. Prenderne atto con piatto realismo o sperare che un giorno possa compiersi il miracolo d’una destra finalmente bella, buona e civile capace di piacere non solo alla gente che piace e si piace?

Diciamo che questo scarto tra l’effettuale e l’immaginario è il brutto, ma forse anche il bello, della politica. Quelli che la studiano lo sanno bene, ma talvolta ahimè dimenticano che proprio perché essa segue regole tutte sue difficilmente si può indirizzarla o incasellarla a misura delle preferenze di chi la osserva. Specie quando, come oggi, si stanno producendo tali accelerazioni storiche da rendere le comparazioni col passato politico più o meno recente del tutto inutili o fuorvianti. Il mondo si sta ridisegnando sotto i nostri occhi a causa di una pandemia globale: sicuri che conservatorismo, progressismo, liberalismo, socialismo, moderatismo, popolarismo, nazionalismo, tutta roba del secolo scorso e oltre, siano ancora categorie attrattive o capaci di afferrare la realtà in movimento?

Il dilemma un tantino stucchevole tra la destra esistente e quella desiderabile – emersa con prepotenza quando scese in campo Berlusconi (un liberista più gaudente che selvaggio che aveva il piccolo difetto di piacere a milioni di italiani) e divenuto un tormentone all’epoca della guerra tra quest’ultimo e il suo delfino mancato Gianfranco Fini (fautore di un conservatorismo modernizzatore bocciato dalle urne prima che dalla storia) – si ripropone ora con Giorgia Meloni, da mesi in crescita costante di consensi e sempre più accreditata come futura donna di governo. Così com’è vale quasi il venti per cento? Quanto varrebbe se seguisse i consigli di quelli che provano a spiegarle cosa fare e cosa dire (e anche come dirlo)? Forse il doppio, forse meno della metà.

Donna (e mamma), appunto. L’unica leader che è tale nel desolante panorama politico italiano, che anche a sinistra – al di là delle proclamazioni di principio – inclina storicamente tra il misogino, il patriarcal-padronale e un maschilismo ora becero ora malcelato. Ma non è questo ovviamente il suo surplus politico, anche se la cosa l’aiuta sul piano dell’immagine e della comunicazione.

Come l’aiuta essere giovane leader sprizzante energia e passione militante in un paese di vecchi marpioni, di politici disillusi e disposti a tutto per sopravvivere, di politici per sbaglio più che per vocazione come la gran parte dei grillini, di giovanilisti fastidiosamente ipercinetici alla Renzi o di giovani forse un po’ troppo compunti e seriosi come appare oggi Letta. Così come la sta molto aiutando la cretineria manifesta di molti suoi avversari, che tra insulti grevi alla persona o ironie da terza media sulla sua cadenza fieramente “romana” non hanno fatto altro che accrescerne involontariamente la visibilità-popolarità.

I suoi punti di forza sembrerebbero altri. Nell’epoca della politica fatta per caso o per convenienza, la Meloni viene da una storia novecentesca di impegno, caratterialmente assai formativo, nei ranghi delle formazioni giovanili d’un partito che era ancora di massa come ispirazione e mentalità. Oggi la cosa sembra preistoria, ma al dunque fa ancora una grande differenza. Così come l’aver cominciato il proprio cursus honorum dal basso, come consigliere provinciale a Roma. Sono aspetti di biografia politica un tempo normali, oggi divenuti inconsueti, ma proprio per questo stanno giocando a suo favore (li si trova ben raccontati nel libro che il saggista Francesco Giubilei le ha appena dedicato).

Ha poi dimostrato una gran capacità ad aggregare, riunire e tenere insieme un mondo, quello della destra italiana di provenienza o memoria missina, che al suo interno, a dispetto della retorica comunitarista di cui s’è sempre ammantato, ha spesso conosciuto diaspore, lacerazioni settarie, contrapposizioni ideologiche, fughe estremistiche e personalismi esasperati. Sarà che le battaglie culturali o ideali oggi non le combatte più nessuno, a destra come a sinistra, fatto sta che intorno alla leadership della Meloni si sono ricompattate tutte le anime della destra italiana come mai era successo prima. Leadership la sua quanto mai solitaria e incontrastata, mentre Fini, anche nel momento massimo del suo potere come capo di Alleanza nazionale, dovette sempre vedersela coi cosiddetti “colonnelli”. Quella stagione finita male per tutti evidentemente qualcosa le ha insegnato: in primis ad esercitare il potere senza condividerlo troppo.

Ci sono poi i limiti, per così dire oggettivi: il primo dei quali è proprio l’essere il capo di una destra che fatica, nelle relazioni politiche e sociali, ad uscire da sé stessa nel nome ancora una volta di un malinteso senso della comunità e dell’appartenenza. Lo si vede, come già fu per An, nella composizione del gruppo dirigente di Fratelli d’Italia, legato in gran parte da vincoli di antico e condiviso attivismo militante. Grazie al ruolo oggi ricoperto dalla Meloni in Europa questo autoconfinamento politico-antropologico potrebbe essere lentamente superato.

Più seri sono i dubbi relativi al suo reale posizionamento ideologico. Lei si vuole esponente del classico conservatorismo continentale tornato d’attualità (vedi le citazioni dell’inglese Roger Scruton, epigono di Burke), i critici o disistimatori l’accusano di essere una populista-sovranista incline alla demagogia. In realtà qui agisce un equivoco. Le due posizioni sono infatti diventate la stessa cosa nella misura in cui il conservatorismo, quello antico o tradizionale, ha smesso di essere una cultura politica elitaria e anti-popolare, ma pur sempre radicata in una tradizione nazionale collettiva garantita appunto da quella che un tempo si chiamava classe dirigente, per trasformarsi nella dottrina abbracciata dai ceti popolari che oggi più si sentono traditi da élite sempre più transnazionali e “senza patria” e più temono gli effetti stabilizzanti (sul piano sociale, economico e psicologico) del globalismo culturale e della globalizzazione economica.

Per alcuni ciò significa giocare pericolosamente con le paure irrazionali (e spesso triviali) delle masse. Ma la cosa può essere detta altrimenti: la destra in stile Meloni, e ciò in parte ne spiega la crescita esponenziale in questa fase di grande smarrimento, punta scientemente a dare visibilità e rappresentanza politica ad uno stato di malessere-insoddisfazione collettivo reale e profondo, che il mainstream cultural-giornalistico spesso tende a nascondere dietro una filosofia turistica della storia (svincolata da qualunque tradizione o eredità) e una visione cosmetico-edonistica della società (la ricerca forzata del piacere come narcotico alle nostre insopprimibili angosce esistenziali).

Detto diversamente, nell’epoca dell’Io esasperato, tutto immerso nel presente e preso dalla soddisfazione di sé, la deprecata destra identitaria pone il problema del rilievo che nella storia e nella politica continuano ad avere, per quanto lo si voglia negare, le personalità collettive grazie alle quali le persone spesso danno un senso trascendente alla propria esistenza altrimenti per definizione effimera: lo Stato, la nazione, la comunità territoriale, il gruppo parentale, le strutture educative, la famiglia stessa. Realtà concrete e carnali, non virtuali. La declinazione di questi temi da parte della Meloni appare grossolana e aggressiva? Se ne offra una più elegante, invece di cavarsela con l’accusa di populismo: che per essere quest’ultimo uno stile politico ormai trasversale a tutte le famiglie politiche lascia peraltro il tempo che trova.

Ciò detto, non ho davvero nessun consiglio da dare alla Meloni. L’ho fatto una volta con Fini, pensando anch’io ad una destra ideale diversa da quella reale, e guarda come è andata! I successi in politica, come anche le sconfitte, hanno sempre una spiegazione razionale.

Ultimo aggiornamento: 3 Aprile, 01:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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