Draghi, la spinta a restare, ma il premier non si fida: garanzie da tutti i partiti

I dubbi di Palazzo Chigi: atteso un segnale soprattutto nell’intervento di Salvini in Aula

Martedì 19 Luglio 2022 di Francesco Malfetano
Draghi, la spinta a restare, ma il premier non si fida: garanzie da tutti i partiti

«Vediamo». Non si sbilancia Mario Draghi.

E a chi tra i suoi gli chiede cosa farà domani non affida risposte diverse da quelle degli ultimi giorni. «Le condizioni sono chiare a tutti da sempre» viene sottolineato. E cioè che il governo è nato basandosi sull’unità nazionale e non può vivere in altro modo. Tradotto: l’idea del premier è andare fino in fondo con la decisione presa. Al punto che, stando a diversi osservatori autorevoli, potrebbe non dare spazio alla replica dei partiti dopo le sue dichiarazioni - né lasciarsi “impressionare” dalla fiducia - per andare al Quirinale. In pratica il tentativo di far finire il premier in un cul-de-sac in cui debba assumersi la responsabilità della crisi, potrebbe finire semplicemente con l’essere aggirato. Troppo «inaffidabili» i partiti perché si possa pensare ad una qualche conciliazione. 

LA PARTITA

Sarebbe però sbagliato dare per chiusa la partita. Resta infatti in piedi qualche “però” che nutre ancora le speranze di Enrico Letta e degli altri pontieri alla ricerca di una soluzione sostenibile. L’idea è che Draghi potrebbe ripensarci se tutti coloro che vogliono restare terminino ultimatum e richieste improbabili. Il riferimento - oltre che ai cinquestelle che ormai però sembrano sempre più fuori dalla partita - è soprattutto ai leghisti. Impossibile pensare di costruire un “nuovo” percorso insieme se Matteo Salvini non solo agita a ore alterne lo spauracchio del voto ma, soprattutto, avanza richieste considerate improponibili come lo scostamento di bilancio da 50 miliardi di euro. Servono insomma segnali inequivocabili e garanzie da tutti i partiti già negli interventi prima del voto alla Camera e al Senato.

D’altro canto sul tavolo c’è anche l’idea che il pressing sul premier possa riuscire qualora finisse escluso dal governo il «partito di Conte» (come in molti in Parlamento hanno iniziato a chiamare il M5S in un articolato gioco linguistico-politico). E cioè che l’ormai attesa scissione porti all’opposizione un Movimento depotenziato, con una truppa consistente disposta a rimanere (anche per disinnescare nuove polemiche sulle caselle ministeriali lasciate libere). Si tratta di scenari che, a poco più di ventiquattro ore dagli appuntamenti a palazzo Madama e Montecitorio, sono considerati ancora meno probabili rispetto alla fine dell’esecutivo e al voto entro il 2 ottobre. 

 

In ogni caso il silenzio di Draghi alimenta speranze. La sensazione - spiegano dai vertici del governo - è che il premier attenderà l’ultimo minuto per decidere. Del resto l’incombenza del viaggio ad Algeri non è stata solo una “piacevole” pausa distensiva che gli ha consentito di provare a lasciarsi alle spalle «le cose in ordine» (ridurre la dipendenza dal gas russo e mettere in sicurezza l’inverno italiano), ma anche un attimo di tregua dal brusio dei partiti che cercano accordi, escamotage e punti in comune per trattenerlo.

Con qualche ora di distacco sulle spalle, il premier oggi tornerà a mettere a fuoco la questione, affinando il discorso che terrà prima al Senato e poi alla Camera. Un timing - il passaggio sarà prima nella meno favorevole Aula di palazzo Madama a dispetto delle richieste del Pd e di una parte del M5S - che non ha né impressionato né appassionato il premier. Al contrario invece da quanto fatto dalle manifestazioni - di piazza e di stima - che sono continuate ad arrivare ieri. Il telefono del premier infatti ha squillato senza sosta. E anche se a palazzo Chigi non confermano, tra gli interlocutori ci sarebbe stato anche Beppe Grillo. Bocche cucite però sui contenuti della conversazione. 

Ultimo aggiornamento: 11:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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