«Così però diventa difficile andare avanti. Ogni giorno è una via crucis». A scattare la fotografia dell'ultima crisi di nervi andata in scena tra i partiti della maggioranza (e in particolare, dalle parti dei Cinquestelle) è Paolo Barelli, capogruppo di Forza Italia alla Camera. Che a sera, uscendo da Montecitorio, riavvolge il film di una giornata cominciata all'insegna di un accordo, quello sul dl Aiuti, dato come «vicinissimo». E finita, invece, con un altro rinvio. E pure con una nuova minaccia di far saltare il banco. L'ultimatum arriva da una telefonata di Giuseppe Conte. «Se questa volta Mario Draghi non ci verrà incontro il senso delle parole che l'ex premier avrebbe recapitato ai compagni di campo largo del Pd, stando ad alcuni retroscena allora addio governo».
I PUGNI SUL TAVOLO
È deciso a battere i pugni sul tavolo, il presidente M5S, che proprio questo pomeriggio incontrerà Mario Draghi a Palazzo Chigi. Lo stesso per tutto il giorno fanno i vertici pentastellati alla Camera, ai quali il decreto (che stanzia circa 20 miliardi di sostegni a cittadini e imprese) non va giù per almeno due ragioni. La prima è il termovalorizzatore di Roma, incluso nel testo del dl Aiuti e inviso a buona parte dei deputati grillini. La seconda, ed è questo punto su cui ieri si è scatenato il tira e molla con il governo, sono le modifiche al Superbonus.
Un provvedimento irrinunciabile, per i Cinquestelle, ma che l'esecutivo ha deciso di non rifinanziare perché troppo oneroso. Ma al centro della diatriba è tornata anche la complessa partita della cessione dei crediti, su cui la settimana scorsa si era riusciti a trovare un'intesa in commissione solo dopo lunghe ore di trattative, andate avanti fino alle 4 del mattino. Da quella riunione, spiegano fonti della maggioranza, si era usciti con l'accordo di votare il testo con la fiducia, così da evitare impasse in aula. Invece, tutto da rifare.
Da Palazzo Chigi fin dal mattino spingono per la mediazione. Il ministro per i Rapporti col parlamento Federico D'Incà, che segue il dossier, fa sapere che il governo è pronto a togliere la fiducia dal decreto, a patto che il voto non si traduca in uno stillicidio di emendamenti. E che si riescano a rispettare i tempi strettissimi per la conversione in legge. Per guadagnare un margine di qualche ora sulle trattative, resta in piedi l'ipotesi di far tornare il testo in Commissione. Ma subito ecco lo stop della viceministra dell'Economia Laura Castelli: «Per il Mef non c'è alcuna ragione di rivedere il decreto», recita l'alt. Dunque, si va in aula alle 12.
E invece no.
LA CRISI DI NERVI
Ed ecco che la crisi di nervi è servita. Alle 14 viene fissata (e poi annullata) una conferenza dei capigruppo. La maggioranza si riunisce alle 16, poi di nuovo alle 17,30. La seduta del voto, prevista per sei ore prima, slitta alle 18,30. Il ministro D'Incà, scuro in volto, si fa vedere a Montecitorio. Si cerca una soluzione per uscire dal vicolo cieco, ma niente. Al punto che sul tavolo torna prepotente l'idea di porre la fiducia, perché va bene mediare ma il decreto va convertito in pochi giorni. «O c'è l'accordo sul superbonus ripetono dal M5S oppure salta tutto». E così, finisce che D'Incà si presenta in aula per chiedere il rinvio della votazione, rimandata a stamani (alle 9,30). «La complessità politica della vicenda spiega il ministro ha imposto il massimo approfondimento e il coinvolgimento dei gruppi parlamentari, determinando un ritardo nei lavori. Con la presidenza del Consiglio conclude valuteremo nelle prossime ore come procedere». L'orientamento è quello di concedere un ultimo tentativo di mediazione. Ma il voto di fiducia, con ogni probabilità, arriverà lo stesso.