Giovanna Pedretti morta, Cesare Mirabelli: «L'odio social può essere un reato: lede la dignità e l'onore della vittima»

Il presidente emerito della Consulta interviene sul caso della ristoratrice di Sant'Angelo Lodigiano: "Ipotizzabili stalking e diffamazione"

Mercoledì 17 Gennaio 2024 di Michela Allegri
Giovanna Pedretti morta, Cesare Mirabelli: «L'odio social può essere un reato: lede la dignità e l'onore della vittima»

I social sono «uno strumento da maneggiare con cura», ma esistono modi per tutelarsi. E quando a prendere posizione sono soggetti che hanno un bacino di follower ampio è sempre necessario considerare la portata e la rilevanza di una notizia, «capire se si tratta di un fatto così importante a livello di opinione pubblica da meritare una successiva esplosione reiterata di commenti forti e aggressivi». Ne parla - a proposito della morte di Giovanna Pedretti - il presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli.
Quali sono i rischi legati all'utilizzo dei social?
«Sul piano generale le comunicazioni tramite i social, come tutte le comunicazioni attraverso la rete, sono uno strumento da maneggiare con cura, perché possono avere conseguenze negative. La loro portata di diffusione e la loro difficile controllabilità richiedono molta attenzione. Sotto il profilo dei contenuti la capacità di intervento e di vigilanza da parte del gestore della piattaforma è molto limitata, anche se devono essere editati atti che incitano all'odio, alla violenza e che costituiscano reati».
Dal punto di vista penale è più grave divulgare una recensione falsa, oppure la gogna social che si può scatenare in seguito?
«Ci sono diversi aspetti in gioco. C'è il carattere commerciale, bisogna valutare se sono genuini o meno i giudizi che la clientela può dare su attività ed esercizi commerciali, e su questi ci dovrebbe essere maggiore vigilanza. Un controllo sulla veridicità è difficile, ma se questa viene meno dovrebbero scattare delle sanzioni. Se però l'attacco successivo è sproporzionato rispetto alla vicenda, allora si potrebbe sfociare nel penale».
Nel caso della ristoratrice di Sant'Angelo Lodigiano che potrebbe essersi tolta la vita dopo essere stata accusata sui social di avere falsificato una recensione relativa al suo locale, si può parlare di istigazione al suicidio?
«In questo caso c'è stata la pubblicazione di un commento che è stato ritenuto non veritiero e un attacco frontale alla titolare del ristorante che aveva diffuso questo messaggio.

Un attacco che potrebbe apparirebbe sproporzionato rispetto alla vicenda, con giudizi pesanti, mezzi un po' aggressivi. Difficilmente si può parlare di istigazione al suicidio, perché, anche se uno stato di disagio di debolezza psicologica c'è sicuramente stato, è mancata l'intenzione di sfruttare questa debolezza, o di fare leva su una convinzione suicidaria conosciuta. La Costituzione però dice che la dignità della persona va sempre tutelata. Parliamo di dignità personale e sociale. E ci sono altri strumenti che possono essere attivati».

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Quali reati potrebbero essere ipotizzabili?
«Anzitutto la diffamazione, che scatta quando si comunica con più persone e si offende la reputazione altrui. Offendere significa anche aggredire verbalmente, dare notizie che, anche quando veritiere, ledono la dignità. Il reato è tanto più grave quanto più viene diffusa la notizia, la parola, il giudizio offensivo della reputazione altrui. Si parla di diffamazione anche quando l'offesa avviene di fronte a poche persone, ma in questo caso, con i social, si tratta di un numero sterminato di destinatari e di qualcosa che resta nella rete. Forse in caso di gogna sul web potrebbe essere ipotizzabile anche un altro reato, quello di atti persecutori, che si contesta quando con condotte reiterate si molesta qualcuno in modo da cagionare un perdurante stato di ansia e paura. In questo caso non c'è stato solo un messaggio, ma uno stato di pressione destinato a creare prevedibile disagio. Mi chiedo anche se non ci possa essere anche la violenza privata, ma è un reato più difficile da ipotizzare. Violenza non intesa come fisica, ma morale, atti che turbano in qualche modo la dignità e libertà della persona. Dal punto di vista penale ci sono delle salvaguardie, è da valutare quali siano quelle adeguate. Poi c'è la responsabilità civile».
Che può portare a un risarcimento economico.
«Molto spesso il risarcimento del danno che questi comportamenti possono provocare è il deterrente più incisivo. Bisogna anche dire che, per quanto riguarda la rete, forse il sistema di protezione è in via di costruzione progressiva».
Quindi perché di configuri il reato di diffamazione non è necessario che la notizia riportata sia inesatta, oltre che offensiva?
«Dipende. Bisogna sempre considerare la portata e la rilevanza di una vicenda. Capire se si tratta di un fatto così importante a livello di opinione pubblica da meritare una successiva esplosione reiterata di commenti forti e aggressivi. Se si tratta di un fatto circoscritto e con conseguenze molto limitate, allora forse alzare un polverone, anche in caso di comportamento scorretto, può essere diffamatorio. Diverso è il caso del grande influencer che ha detto falsità e che viene smascherato e criticato dalla stampa. Non deve esserci una reazione con il cannone per una presa di posizione da piccola mosca. Se uno dice all'assemblea di condominio che il suo dirimpettaio è un mascalzone, anche se effettivamente lo è, assume un atteggiamento diffamatorio. Succede quando un atto lede la buona fama altrui».
Esistono strumenti per prevenire questo tipo di condotta sui social e sul web?
«È difficile trovare strumenti preventivi veramente efficaci, perché anche in rete vale principio della libertà di comunicazione e di espressione del pensiero. Dall'altro lato, questa libertà non deve ledere terzi e non deve diventare uno strumento per compiere reati e offendere la dignità delle persone».

Ultimo aggiornamento: 18 Gennaio, 08:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA