Sarah, infermiera in prima linea: «Piango e mi sento impotente. Ma ora più che mai amo quello che faccio»

Mercoledì 25 Marzo 2020 di Maria Lombardi
Sarah, infermiera in prima linea: «Piangiamo tutti e siamo stanchi. Ma ora più che mai amo quello che faccio»

«Adesso più che mai sono contenta di quello che faccio. Non vorrei essere da nessun altra parte. E se dovessi ammalarmi, mi salirebbe una tale rabbia per non poter essere lì, con i miei colleghi. Siamo una squadra e dobbiamo esserci tutti». Lì, al pronto soccorso dell'ospedale di Vimercate (Monza), la mascherina che lascia solchi sul viso, «e ti toglie il fiato», la tuta di plastica che fa sudare, «non puoi toglierla e rimetterla per andare in bagno, così per 8 ore non bevo», i doppi guanti, il rumore ininterrotto dei caschi per l'ossigeno, le lacrime che trattieni trattieni e poi all'improvviso non puoi più, «piangiamo tutti, a turno: arriva quella cosa ed è come la goccia che fa traboccare tutto».




 Sarah l'altro giorno ha compiuto 46 anni. Il regalo del marito, Marco Trovato, direttore di Africa Rivista, è stato una lettera pubbblicata su Facebook: «Ti ho vista tornare a casa, stremata e sconvolta, dopo un'interminabile giornata di lavoro. Il volto scavato dalla fatica, il sorriso tirato, gli occhi lucidi, lo sguardo velato da un'ombra ineffabile....Ogni giorno in trincea contro il male impalpabile». Il “mostro”, lo chiama lui, e ogni giorno la moglie lo incontra e lo affronta. «Non ho paura - racconta Sarah, madre di due figli - nel nostro ospedale siamo ben organizzati e i dispositi di protezione non sono mai mancati. Con tuta, mascherina e guanti mi sento protetta. In questo momento la cosa più difficile da gestire sono i drammi umani. I malati sono soli e non possono comunicare con le famiglie, hanno una paura folle, gliela leggi negli occhi, loro non si lamentano. Ce la farò, ripetono, devo farlo per mio figlio o per mio nipote. Nel pronto soccorso sono uno accanto all'altro, chi con la mascherina di ossigeno, chi con il casco per la ventilazione, non possono nemmeno parlare tra di loro. Sono soli e si sentono abbandonati per la mancanza di contatto con i loro cari. Gli anziani ne risentono di più. Cerchiamo di farli chiamare a casa con il nostro cellulare o con il telefono del pronto soccorso. Li aiutiamo come possiamo. L'altro giorno ho consegnato una lettera d'amore di una moglie al marito ricoverato. Un vecchietto di 80 anni ci ha chiesto: fer favore, vorrei sapere se mio fratello è morto. Era ricoverato nel nostro ospedale, abbiamo chiamato in reparto: era vivo».

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Il dolore della solitudine, e quello dell'impotenza. «Non eravamo abituati a sentirci impotenti. Al pronto soccorso e in rianimazione salvi le persone, medici e infermieri hanno sempre pensato che questo era il loro lavoro: salvare. E adesso è difficile poterlo fare sempre, le provi tutte e poi sai che di più non puoi. Nessuno si aspettava una bomba così. E dal punto di vista psicologico siamo tutti provati, c'è chi crolla e chi si nutre dell'unità del gruppo. Siamo molto più uniti di prima, una squadra che dà a tutti energia. Quando sei lì l'energia non manca, anche se soffri per la stanchezza. Anche se manca il fiato sotto la mascherina e muori di caldo con la tuta. Ogni tanto dobbiamo uscire per prendere un poco d'aria. Non bevo per tutto il turno di 8 ore perché se vai in bagno devi spogliarti e cambiare tutte le protezioni». I cartelloni fuori dall'ospedale, grazie, i dolci in regalo, siete i nostri angeli, e pizze, grazie ancora. «Non eravamo abituati a questi gesti di riconoscenza e siamo commossi. Vedrai che questa cosa cambierà l'atteggiamento delle persone, dice qualche mio collega. Io spero che non torneranno a insultarci e aggredirci come prima. E anche dal punto di vista politico la nostra professione dovrebbe avere un'altra considerazione». Ogni giorno Sarah va «incontro al mostro» per 1.400, 1.600 euro al mese, dipende. «Non ne faccio una questione di stipendio ma di responsabilità. Ho scelto di fare questo mestiere dopo un periodo trascorso in Africa come volontaria. Medicavo bambini e mi è scattato qualcosa: è questo che voglio fare. Non mi sono mai pentita. Neanche adesso. Anzi adesso più che mai sono contenta del mio lavoro. Quando torno a casa, sfinita, ho solo voglia di silenzio». I segni della mascherina sul viso, gli occhi stanchi e velati. Com'è andata? Quanti tamponi hai fatto?, si preoccupano i figli (26 e 18 anni), «mamma, siamo orgogliosi di te».




 

Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 11:36