«Quelli non c'entrano niente con il pugilato e le MMA. Quelli sono solo dei grandissimi vigliacchi e noi non siamo bestie come loro». Emanuele Blandamura ha la boxe nel sangue e, come tanti, ha compreso, allenamento dopo allenamento, che «il pugilato non è solo l'uomo che tira colpi».
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Campione d’Europa ed ex sfidante mondiale dei pesi Medi, a 40 anni Blandamura continua ad essere un modello e un punto di riferimento per tanti ragazzi. «Sono nato a Udine, cresciuto a Roma con i miei nonni e zii. Abitavo in un quartiere difficile, dove vigeva o vige la legge del più forte – ricorda Blandamura - Le persone ti rispettano perché ti temono hanno paura di te. Facevo vita di strada, passando le giornate tra bar e piazzetta. Cercando di svoltare qualcosa. Ci si prendeva a pugni per niente e ti portavi via niente». Poi la svolta, l'incontro con la boxe. «L'ultima volta che ho fatto a botte per strada avevo 18 anni – ricorda Blandamura – da allora più niente, perché è scattato qualcosa dentro di me. Credevo fosse facile tirar pugni. Ma mi sbagliavo, era difficile: allenarsi, mangiar sano, avere orari di riposo e allenamento equilibrati, avere paura e vincerla».
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«Io posso definirmi pugile, perché ho lavorato tanto su me stesso e ho faticato per conquistarmi questo titolo – sottolinea il campione – Quelle persone non sono pugili, non basta certo salire su un ring per esserlo.
Colleferro, il campione di boxe Blandamura: «Non chiamateli pugili, sono vigliacchi»
Martedì 8 Settembre 2020 di Marco PasquaSono dei parassiti, delle persone inutili». Un parere condiviso anche dai colleghi delle MMA, amici di Blandamura, da Carlo Perdersoli e Alessio Di Chirico, due figure di punta di quel mondo: «Da parte loro c'è una condanna nettissima: quei 4 non hanno nulla a che vedere con le MMA. I lottatori non sono delle bestie come loro. E chi combatte, lo fa per la sua dignità, per superare i propri limiti». Negli anni, Blandamura ha incontrato tanti avversari, alcuni lo hanno battuto, altri no: ma con molti di loro ha mantenuto un rapporto. «Ci scriviamo, ci chiediamo come stiamo, seguiamo la nostra attività – continua – perché ci rispettiamo». «Alla fine del match abbraccio il mio avversario gli dico grazie lo guardo e lo incoraggio – sottolinea - Perché quello che è successo a lui è già successo a me e potrebbe ricapitarmi. Nella vita di tutti i giorni sono solito confrontarmi con tutti i tipi di persone. E scopro di avere una grande empatia verso il prossimo e proteggo il debole stando dalla sua parte. E condanno l’atto di violenza scaturita dall’ignoranza. Nessuno ha il diritto di far male a qualcun’altro, la vita è sacra, è un dono meraviglioso».