Caso Cucchi, il racconto di un detenuto virale su Facebook: «Anche io picchiato in carcere»

Mercoledì 17 Ottobre 2018
Caso Cucchi, il racconto di un detenuto virale su Facebook: «Anche io picchiato in carcere»
Dopo i recenti risvolti sul caso Cucchi, in seguito alla confessione del carabiniere Francesco Tedesco che ha accusato i suopi colleghi del pestaggio del giovane geometra, una detenuto per il momento rimasto anonimo ha trovato il coraggio di raccontare una storia terribilmente analoga. La testimonianza è stata raccolta dalla giornalista Matilde Andolfo, che l'ha pubblicata sul suo profilo Facebook facendola diventare virale in poco tempo. Ecco il testo integrale, tratto da una storia vera.

È buio e fa freddo. Ma non è il gelo a farmi tremare. Aspetto, insieme a tanti altri, il mio turno appoggiato alla parete di un lungo corridoio. La porta si apre e dalla stanza esce un ragazzo. Ci avviciniamo, mettendoci intorno a lui fino a fare un capannello. Ognuno gli chiede come comportarsi una volta dentro. No, non stiamo a scuola. Siamo nel carcere di Poggioreale a Napoli, nella casa circondariale intitolata a Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere barbaramente assassinato dalla Nco di Cutolo nel 1981. È la mia prima volta. E aspetto che mi vengano assegnati padiglione e cella. Ho sbagliato e sono pronto a pagare, mai come adesso mi sento un coglione. Mi manca mia moglie, mi manca mia figlia. Il ragazzo ci fa le sue raccomandazioni: "Bussate prima e poi con garbo chiedete di entrare. Ah, un'ultima cosa guagliù. Non vi mettete dietro alla scrivania. State lontano qualche metro e con le mani dietro la schiena". Mi tremano le mani, le nocche sono quasi sulla porta. "È permesso, posso entrare?". Dall'interno una voce mi dice di venire avanti. Sono in una stanza enorme e anonima. Ripasso nella mente quello che mi ha detto il ragazzo. Mi metto lontano dalla scrivania, con le mani dietro la schiena. Le pareti sono bianche e liscissime, le luci al neon quasi mi accecano. In un lato della stanza tre, forse quatto guardie carcerarie in divisa chiacchierano tra di loro. Sembra che nessuno mi abbia visto. Sono invisibile. Uno, due, tre ... cinque minuti. Continuano a ignorarmi. È allora che timidamente faccio un passo in avanti e quasi sussurrando, dico: "scusi...". Dall'altro lato uno degli agenti mi dà l'ordine: "Spuogliete!". Resto sorpreso. Forse ho capito male: "Cosa devo fare?"- chiedo . E quello più corpulento ribadisce: "T'agg' ditt' spuogliete". Poi si volta di spalle e continua a parlare con gli altri come se nulla fosse. Io allora comincio a spogliarmi. Via la maglia. Via i pantaloni. Tremo come una foglia. Resto in mutande per non so quanti minuti. Mi sembrano passate ore. Ad un tratto dico ad alta voce che mi sono spogliato. È sempre la stessa guardia carceraria a rispondermi: "allora nun' hai capit? Ti a' levà tutt' cos'. Pur' a mutand'". Poi ricomincia a parlare con gli altri. Adesso sono completamente nudo. Provo una vergogna tremenda, mi dico che ho sbagliato e che quindi così vanno trattati i detenuti . Ma perché continuano a ignorarmi? Per la terza volta cerco la loro attenzione: "brigadiè c'aggia fa?". Non finisco neanche di completare la frase che quello che mi aveva ordinato di spogliarmi nudo si gira di scatto. Mi guarda come inorridito e comincia a urlare: "Ma c'hai fatt'? Chi t'ha ditt' e' t'e spuglià?". Adesso mi sembra incazzato. Si rivolge alle altre guardie carcerarie: "colleghi avite vist' a chist'? C'ha mis' o' pesc' n' faccia". Faccio per replicare : "Brigadié ma voi me lo avete detto!". Era meglio se fossi stato zitto. La sua rabbia è diventata odio. È tutto rosso in viso, mi guarda con una ferocia mai vista in vita mia: "Io? Ma quann maje t'agg' ditt' e te spuglià? Ma comm' te venut' 'n cap'?". Si avvicina e mi sferra un pugno in pieno viso. È l'incipit di un rito di iniziazione. Al primo pugno seguono schiaffi, calci e botte. Botte da orbi che mi fanno rimpiangere di essere ancora vivo. Un'ora di violenze, sevizie e torture: sono stordito e non c'è punto del corpo che non mi faccia male. Capisco che nessuna regola di comportamento sarebbe valsa a trattenerli. Il battesimo del carcere è uguale per tutti. Quando entro in cella ho il volto tumefatto e sono completamente ricoperto di sangue. Il mio compagno di cella quando mi vede ha un conato di vomito. Io, io faccio appena in tempo a stendermi sulla branda. Un respiro e poi svengo . "Ti conviene stare zitto"- mi dicono le guardie prima di abbandonarmi. Capisco allora che dentro quel carcere lo Stato italiano non esiste più. Non sgarrare, non parlare, non fare commenti su nulla, non ridere, non piangere.
E soprattutto, non guardare mai dritto negli occhi una guardia carceraria. È un segno di sfida intollerabile per il codice carcerario. Lascio nel "pacchetto" degli effetti personali la corona del rosario, il portafogli, documenti, santini e portafortuna. Cuore e sentimenti. La mia identità. 
La paura delle botte mi ha fatto ritornare bambino. Passano le settimane, i Mesi. Lunghi, lunghissimi. La prima volta che varchi l'ingresso di Poggioreale non te la scordi più. Il rumore delle chiavi, quel cigolio insopportabile del ferro e delle mandate date con sapienza dalla guardia carceraria. Sbam! Sbam! Sbam! Sbam! 
Le chiavi aprono una prima porta ferrata. Attraversiamo un corridoio che sembra un tunnel. In fondo ad aspettarci c'è un'altra guardia. Altre chiavi chiudono la seconda porta. Altro corridoio e altra porta. Ormai non le conto più. Ma la sensazione è quella di un viaggio di non ritorno, in un luogo che assomiglia sempre più alle tenebre. 
Cerco di non commettere errori, di non cadere. Ho sempre freddo. Mi piace avere freddo perché così maschero la paura e il terrore che mi accompagna da mattina a sera. Il rumore insopportabile e continuo dei passi delle guardie, l'occhio della sentinella che occupa tutto lo spioncino che dà sulla cella. Siamo controllati 24 ore al giorno. Temono che qualcuno decida di farla finita, magari impiccandosi. La mia cella non ha nulla di ospitale. Ma ormai è la mia casa e con alcuni detenuti ho instaurato un buon rapporto. Ci capiamo. C'è solidarietà . Certo continuano a mancarmi mia moglie, mia figlia. È la mia vita. L'ho scelta io. È giusto che sia così. È giusto che paghi. È giusto sapere che chi sbaglia paga. Così ci si pensa due volte prima di commettere reati. Ed è giusto che mi manchi mia moglie. Più mi manca e più comprendo che non ne vale la pena. Che quella cazzata non era poi una cazzata perché mi ha condannato e privato della libertà. Sembra di stare in un obitorio. E certo la vita l'ho lasciata fuori di qui. I padiglioni di Poggioreale assomigliano ai gironi danteschi: "se non fai il bravo, ti mettiamo nella cella con gli immigrati assassini" - mi dicono le guardie carcerarie, i miei aguzzini . Una sera che il profumo di casa mi entrava fin dentro le narici e la nostalgia mi era insopportabile volli cucinarmi degli spaghetti alla puveriello. Mi mancavano le uova però . Chiesi allora al detenuto della cella accanto se le avesse. Non l'avessi mai fatto . Nascosto nello spazio tra due celle, c'era la guardia carceraria . "Che stai facenn ?"- mi urlò sguaiatamente. Provai a difendermi , ma già avevo capito come sarebbe proseguita la serata. L'agente apri la gabbia e mi trascinò fuori. Gridava, sbraitava. Come avevo osato chiedere qualcosa a un altro detenuto? Non deve esserci alcuna amicizia tra detenuti. Mi disse che mi avrebbe dato una lezione che mai più avrei dimenticato. Fui trascinato giù per le scale e scaraventato in una stanza buia. 
Sono a terra. Sento sotto il mio corpo il gelo del pavimento. È un attimo e realizzo che sì, la famigerata "cella zero" esiste davvero. Adesso la vista si è abituata al buio. Nella stanza c'è qualcun altro. La guardia ha chiamato i rinforzi. Uno, due... non ricordo . Ricordo però benissimo, nella penombra della cella rischiarata dalla luna il profilo di una mazza di legno chiaro. Il cuore batte all'impazzata. Non ho neanche il tempo di emettere un suono che già mi sono addosso. I primi colpi sono terribili e mi procurano un dolore lancinante. Poi la mia mente anestetizza il dolore . Fino a quando uno dei due non mi picchia così forte che quella mazza si spezza in due sulla mia schiena . Ecco, immaginate il dolore di una mazza di legno che si spezza sulla schiena di uno che pesa appena 55 chili. Ho paura, ho una paura folle . Stanno per prendere un'altra mazza. Oddio penso, non hanno smesso. Chissà se ce la farò a sopportare? Forse vogliono uccidermi. Penso a mia moglie, alla mia piccola che non conoscerà mai suo padre. Si stanno per avventare quando improvvisamente arretrano. Non riesco a spiegarmelo. Sento uno dei due che dice: "Ferniscela, o guaglion' s' è cacat' sott". Adesso la sento anche io, una puzza tremenda che invade la stanza . Mi sollevano di peso e mi riportano nella mia cella. Sono sulla branda . Sono una piaga umana. Ma per fortuna sono ancora vivo. Con la mano destra riesco a toccarmi dietro. Mi guardo le mani. Non puzzano e non sono sporche. Abbozzo un sorriso. Un peto, mi ha salvato un peto. Sorrido, nonostante tutto, perché mi rendo conto di essere stato fortunato. Perché quella sera, se avessero continuato, sarei sicuramente morto. L'ho imparata, l'ho imparata la mia lezione. Alla fine il bilancio è tutto in negativo per me. In quella cella ho lasciato tante cose. I miei capelli ad esempio. Ne cadevano a migliaia. Ogni mattina me li ritrovavo sparpagliati sul cuscino. La dignità, quella l'ho recuperata un po' per volta anche se ancora oggi mi sembra sempre di dover chiedere scusa a chiunque. Mi sento come se portassi addosso il marchio che si imprime alle bestie. Ma quello che più mi fa male è aver perso per sempre, insieme ai miei sogni di ragazzo, la mia libertà . La libertà di sentirmi libero e felice. Lasciata in quel "pacchetto" di cose che si mettono da parte prima di varcare quella soglia nera.

 
Ultimo aggiornamento: 14:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA