Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Leone d'oro alla carriera a Benigni
La Mostra è pop: premio al personaggio

Giovedì 15 Aprile 2021

Robertoooooooooo: e sembra di sentire ancora una volta l’eco dell’urlo di gioia di Sophia Loren, in quella notte degli Oscar, nella quale, come non mai, sulla figura di Benigni si concentrò il massimo entusiasmo, ma anche le perplessità non meno rilevanti, per una consacrazione dettata più dal sentimento (anche un po’ facile) che dalla ragione, soprattutto cinematografica. Il Leone alla carriera a Roberto Benigni, annunciato ieri dalla Biennale, è in ogni caso una scelta decisamente pop. Anche un po’ furba (non ha un significato negativo), ben consapevole di essere destinata a incontrare un’eco enorme, a cominciare dal rimbalzo della notizia mai così rumoroso, sottolineata anche in quei telegiornali che solitamente si astengono quando si tratta di attori, registi e quant’altro solo mediamente popolari, figurarci di nicchia. In questo è un premio molto pragmatico, proprio perché non è il riconoscimento a esaltare il destinatario, bensì il contrario.

Ci sono altri aspetti che danno come comprensibile questa attribuzione: intanto è un italiano e in questo tempo disgraziato rincorrere spostamenti da una nazione all’altra, da un continente all’altro resta un bell’azzardo, specie alla luce della continua illusione sui vaccini distribuiti a tutti entro l’estate, ogni giorno spezzata da notizie di estrema incertezza, con un peso ancora maggiore rispetto all’anno scorso, proprio per il pregresso di questa durata interminabile; ma soprattutto la presenza di un guitto, di un saltimbanco ingovernabile sul palco, prima ancora che attore, regista e sceneggiatore assicura un evento-fiume capace di strappare risate, divertimento, spensieratezza (certo non solo, ma si sa che andrà soprattutto così), pronte a scacciare almeno momentaneamente i lugubri pensieri che ci accompagnano ormai da oltre un anno. Insomma un’oasi, una parentesi che sarà, almeno da questo punto di vista, salutare. È anche una scelta che sembra voler codificare una sensibilità molto ampia da parte della Mostra, disponibile a passare in poco tempo dalla quasi sconosciuta (ma amatissima dai cinefili) Ann Hui, premiata lo scorso settembre, (oltre a una tradizione di Leoni alla carriera, cinematograficamente significativi, pur nella loro popolarità, tipo Jane Fonda e Robert Redford nel 2017), a Benigni, che è esattamente l’opposto, cioè estremamente famoso, ma certo assai meno rilevante per i cinefili. Sembra un’idea vicina a quella che ebbe, nel 2009, l’allora direttore Marco Müller con la Pixar, tuttavia capace di coniugare le varie sponde d’interesse di più pubblici possibili, non come Benigni, che negli ultimi tempi sta diventando semmai più divisivo e basterebbe aver fatto un giro per il web, ieri dopo l’annuncio, per rendersene conto, a volte con esagerazioni censurabili. Ma la stragrande maggioranza degli spettatori lo ama e questo per Venezia è indubbiamente decisivo.

Che poi, a ben guardare, il pedigree di attore non è certo banale, avendo dato volto a personaggi in film di Bertolucci, Ferreri, Citti, Fellini, Blake Edwards, Allen, Garrone e ovviamente Jim Jarmusch, non solo per quel “Daunbailò”, in cui finito in carcere per errore in America, evade insieme a Tom Waits e John Lurie, in una fuga esilarante tra le paludi. Certo è un attore capace di modellarsi anche su piani più malinconici, come quello nel felliniano “La voce della luna”, assieme a Paolo Villaggio, o su personalità anticonvenzionali, come il maestro alternativo nel ferreriano “Chiedo asilo”; semmai a convincere meno è il regista, il quale attraversa momenti di esaltazione al botteghino, bagliori di gloria come accadde appunto con “La vita è bella” (tre Oscar: a lui come attore protagonista, al miglior film straniero e alla celeberrima colonna sonora di Piovani; Gran Premio a Cannes), momenti scanzonati (“Il piccolo diavolo”, “Johnny Stecchino”), altri più approssimativi (“Il mostro”), tonfi abbastanza evidenti (“Pinocchio”, “La tigre e la neve”), senza dimenticare l’accoppiata vincente con Massimo Troisi per “Non ci resta che piangere”.

Una carriera intensa tra teatro, televisione e cinema, fin dagli albori arboriani (“L’altra domenica” e il famoso monologo sul Giudizio Universale nel film “Il Pap’occhio”), quando una surreale irriverenza e una provocatoria, fluviale esuberanza hanno portato a personaggi come il proletario Cioni, a battute come “Wojtylaccio”, a tellurici duetti con il “pisello” di Pippo Baudo e la “patonza” di Raffaella Carrà, sempre in bilico tra il greve e il goliardico, andata via via spegnendosi in un afflato ecumenico, vagamente mistico, tra i “Dieci comandamenti” e la lettura abbondante della dantesca “Divina Commedia”.

Ultimo aggiornamento: 23:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA