Luciana Boccardi
MODI E MODA di
Luciana Boccardi

"FOTO D'ARTE" - ROBERTA ORIO:
SE TI TAGLIASSI LA TESTA?

Mercoledì 2 Dicembre 2020 di Luciana Boccardi

La prima metà del Novecento fu accesa dalla polemica -  mai sopita del tutto -  sorta intorno alle nuove “arti” che a detta di una parte degli intellettuali e degli artisti dell’epoca non dovevano essere considerate arte ma semplici espressoni artistiche  , artigianato artistico. Si trattava della fotografia e del cinema. La diatriba  tra gli intellettuali fu tale che nell’ambito della Biennale di Venezia,  tempio assoluto della cultura più alta e dell’arte internazonale, quando  (nel 1934) venne deciso  di accogliere la proposta di una manifestazione proveniente da nuovi potiri  emergenti legati alla politica economica  potenziata dal regime che,  sia pure  “ meno prestigiosa sotto il profilo culturale” , desse man forte al  turismo ambito per la città. Si trattava della mostra del Cinema, accolta con sussiego dalla dirigenza della Biennale e sostenuta  da  nuove  forze  che ritenevano  il cinema la nuova arte a tutti gli effetti.

Il compromesso si risolse accettando da parte della Biennale che si realizzasse ogni anno la presentazione dei  nuovi  film  prodotti,  non come prodotti d’arte veri e propri ma come “espressione artistica” , tanto che invece di chiamarla Mostra Internazionale del Cinema   (come esistevano in Biennale la rassegna per il Teatro, per la Musica,  per l’Arte tout court) la Biennale ottenne di poterla definire nel titolo Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Una piccola precisazione che però  evitava di considerarla arte a tutto tondo. Durò poco questa visione elitaria  ad  usum delfini  e la Mostra del Cinema della Biennale di Venezia prese il volo cha tutti conosciamo. Lo stesso si verificava in altro ambito per la “decorazione” che veniva definita arte decorativa  così  come per la fotografia che più delle altre trovava difficoltà ad inserirsi nel mondo  ufficiale della cultura.

Nell’atto del fotografare - era la giustificazione dei negazionisti - c’è solo la partecipazione fredda e distaccata di una macchina, un clic che scatta quasi  da solo e fa quello che vuole. Ovviamente i fotografi veri eistevano e si facevano sentire  imponendosi all’attenzione di quanti non volevano accettare. Dai quattro punti cardinali del mondo si imposero mano a mano nomi di assoluta grandezza,. A Venezia,  si facevano  strada firme destinate ad arrivare in vetta alla notorietà e al rispetto culturale proveniente da ben oltre i confini. Anche se arrivato quando la diatriba, nella seconda metà del Novecento,  era già a buon punto per il riconoscimento  intellettuale formale, basterebbe citare Fulvio Roiter che riuscì a fondere giornalsmo , letteratura e immagine nelle sue foto indimenticabili.

Clic è un gesto, un tic possono dire alcuni guardando gli impulsi susseguenti, inarrestabili, di quel grilletto che fissa immagini raccolte anche a caso da chi  prima di pensare deve guardare. L’errore di valutazione si è chiarito più tardi , quando la scuola di fotografia raggiunse livelli di grandezza qualitativa, come scuola che in realtà è di pensiero. Dietro quel clic apparentemente casuale , in un fotografo degno di questa definizione c’è un disegno, una consapevolezza, un gesto di “eternità” destinato a fissare ciò che l’occhio coglie appena ma la macchina rende duraturo, c’è la persona  che resta ben viva dietro la macchina e c’è comunque la corsa all’eternismo.  Alla scuola dei grandi sono approdati giovani e meno giovani in cerca di migliorare ques’arte a lettere maiuscole che oggi viene considerata come una delle grandi possibiltà di espressione artistica, capace di dilatarlo, di renderlo infinito, eternizzandolo  per restituirlo, con l’intervento di una volontà di potere, di dominio che è sempre dietro a un clic.  Venezia resta una delle mete privilegiate per  riprese di immagine , per la molteplicità di possibilità che questo luogo irripetibile offre. Non è a caso che una delle firme della fotografia del nostro tempo più considerate, la veneziana Roberta Orio, abbia dedicato allo studio del luogo (come approdo concettuale irrinunciabile) le sue prime fotografie dopo un’esperienza che l’ha vista autore di paesaggi e quindi di ritratti. Dai luoghi della vista a quelli della memoria  immortalati dalla Orio in varie mostre , pubblicazioni,  stages , worthshop,  in lezioni universitarie a Milano nel  Corso di laurea di Design Indusrtiale e Comunicazione della Facoltà di Architettura  (1999), il passo è stato breve e inevitabile , ed ecco l’artista veneziana impegnata in un’operazione di ricerca e cancellazione dell’identità, che, con  una serie di immagini caratterizzate da “tagli”,  decapitazioni, eliminazione feroce di arti, di frammenti di arredo , “persone” - uscendo oggi da un periodo sabbatico di ripensamenti  -  resta amante del pensiero affidato a immagini apparentemente casuali, quotidiane, di difficile “semplicità”. In realtà è un’ artista  che dietro a una mitezza caratteriale , forse accentuata dai silenzi quieti che,  con la sua   dimensione d’acqua , Venezia impone ai  suoi abitanti, nasconde un  guerriero dell’arte fotografica  che non si arrende, che persegue un obiettivo non  esente da  desideri di purezza, a volte innocenti, a volte no, che ha voglia di eliminare per costruire, togliere per evidenziare. Un modo colto e sornione per cercare in un’opera d’arte  l’eternità.

Ultimo aggiornamento: 01:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA