Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Sul più bello arrivano i Predatori
Ma il gol della settimana lo segna Totti

Giovedì 22 Ottobre 2020

Ci sono due famiglie. Una borghese, una coatta. Una vive a Roma, una a Ostia. Una è composta da madre regista, padre chirurgo, figlio un po’ squinternato, ed è ovviamente progressista, con falle affettive d’ordinanza: sono i Pavone; l’altra è il controcanto inevitabile: è burina, gestisce un’armeria ed è ovviamente orgogliosamente fascista, oltre a essere più unita e sono i Vismara. Poi ci sono altri personaggi, che entrano ed escono e che, a volte, sono creati solo per una presenza destabilizzante della narrazione. Se pensate a “Ferie d’agosto” non è esattamente quella situazione là: qui le due famiglie si intrecciano per una casualità del destino, ma restano sostanzialmente entità separate. In questo dualismo così sfacciato, dove tutto crea costantemente una contrapposizione, l’esordio di Pietro Castellitto si misura, fin dall’inizio, in una chiave ambiziosa, che appare mal ripagata: il piano sequenza iniziale, dove ogni personaggio si impossessa dello spazio strappandolo a quello precedente, inquadrature bizzarre, frammentazione della storia, in ogni scena sembra che la regia voglia riempire tutto di troppi significati e che la modalità estetica serva soprattutto a un’esibizione creativa, quasi mai capace di assecondare lo scopo necessario. Il film si riduce molto spesso così a scenette grottesche e surreali, volendole coniugare alle coordinate della commedia all’italiana, in un paesaggio umano devastato, tra la cafonaggine e il sarcasmo, l’opulenza e il cinismo, come se il sopravvento autoriale bloccasse il respiro di un racconto, incapace di far vivere i propri personaggi, troppo codificati, troppo intrappolati. Da Nietzsche a Hitler, da Talete alla Nutella, il concetto affastellato della provocazione narrativa si stempera nel ricamo greve di una società di predatori depredata del suo stesso istinto, osservati nella loro identità di maschere: Castellitto sfodera un armamentario costipato, dove anche il Federico, interpretato dallo stesso regista (che funziona meglio come attore: lo vedremo presto anche nei panni di Francesco Totti e in “Freaks out”) finisce con l’essere ostaggio di una vena caricaturale, bomba compresa, nonostante l’apparenza spiazzante. Figlio d’arte, Castellitto sembra echeggiare il cinema disturbante del padre e le pulsioni narrative della madre, scrivendo e dirigendo un film nel quale vuole scoprire subito troppe carte, buttandole sul tavolo un po’ alla rinfusa, al pari di quelle dichiarazioni eccentriche su una commedia che lui stesso definisce antiborghese ma non antifascista o al discorso incomprensibile tenuto al Lido sugli infami e sui traditori, al momento della premiazione per la sceneggiatura, nella sezione Orizzonti, riconoscimento apparso come generoso. Insomma a parole, la sensazione non migliora. Cast comunque di grande efficacia. Voto: 4½

MI CHIAMO FRANCESCO TOTTI - La vita, la storia, il passato, il presente e il futuro di uno dei più grandi calciatori italiani di sempre: Francesco Totti. Raccontato in prima persona dalla voice over dello stesso giocatore, il documentario di Alex Infascelli garantisce tutti gli ingredienti classici dei biopic sugli atleti, comprese le puntuali immagini d'archivio familiare quando sui campetti della periferia romana e della Lodigiani (terza squadra della capitale, seconda per Totti) il ragazzino già stupiva tutti. In più, e non è poco, riesce nel sorprendente intento di raccontare un uomo e un mondo che cambia mediante una riflessione tutt'altro che scontata sul tempo, portando la figura in primo piano a interrogarsi su ciò che accadrà, adesso che quel periodo si è irrimediabilmente chiuso, lasciando "Solo" (come la canzone di Baglioni che chiude il film) quel giocatore che si trova immerso nella notte di uno stadio Olimpico deserto e buio, un po' malinconico e spaesato. Una sorpresa. Voto: 7.

SUL PIÙ BELLO - Marta non è bella, ha 19 anni, è orfana fin da bambina quando perse i genitori in un incidente stradale, ha una rara malattia che non le dà grandi aspettative di vita. Ha due amici fidati: Jacopo è gay, Federica è lesbica e insieme vorrebbero comunque avere un figlio. Marta lavora in un supermercato, dove recita all'altoparlante, in modo creativo, le offerte del giorno, tra lo stupore dei clienti. Marta si invaghisce di un giovane rampollo di famiglia borghese e ricca, ma Arturo prima la prende in giro e poi si accorge di esserne innamorato. Marta consapevole della sua malattia cerca allora di dissaduerlo. Un teen movie leggero che sa inoltrarsi in un terreno minato per il cinema italiano. E invece alla fine è quello che vuole essere, non privo di qualche spunto di interesse (la differenza di classe, il ribaltamento della consuetudine sessuale, la malattia tenuta delicatamente in sottotraccia), sconfinando in una commedia romantica tenera e sincera, forse un po' corriva negli sviluppi narrativi. Esordisce alla regia Alice Filippi, Ludovica Francesconi è una Marta che ricorda abbastanza Amelie, rubando la scena a tutti, a cominciare dal bello di turno, Giuseppe Maggio. Voto: 6.

LA CLASSE DEI RIBELLI - Lei avvocato di origini magrebine, lui batterista rock, figlio problematico, nella periferia parigina multietnica di Bagnolet. In un saliscendi continuo di luoghi comuni, di razzismi e controrazzismi, la vita disarticolata di due radical chic, che finiscono impantanati nello stagno del politicamente corretto. Commedia scritta e diretta da Michel Lecrerc con brio, ambiguamente destinata a finire dentro gli stessi tranelli che crea, “Una classe per i ribelli” (in originale “La lotta di classe”) è così felicemente innocua da stridere con gli ultimi gravi fatti di cronaca. Il pregio maggiore resta aver portato i bambini a fare i portoghesi per vedere “I 400 colpi”.  Voto: 6.

 

 

 

Ultimo aggiornamento: 19:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA