Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Lasciami andare, ma il film non sa dove
Un divano a Tunisi, "comoda" commedia

Giovedì 8 Ottobre 2020

Venezia. Anita aspetta un bambino da Marco. Per lui è l’occasione per dimenticare finalmente il passato, nel quale assieme alla ex moglie Clara perse in circostanze drammatiche il proprio figlio Leo, coltivando un senso di colpa inalienabile. Ma un giorno una donna (Perla) che ha preso l’appartamento in cui la coppia viveva e dove il bambino è morto, gli rivela di sentire una strana voce di un fanciullo, che tormenta lei e suo figlio. Marco è scettico, mentre Carla comincia a pensare che si possa veramente stabilire un contatto con Leo. Tuttavia la presenza di Perla si dimostra sempre più inaffidabile, con un passato torbido e pieno di intrallazzi. E intanto a Venezia arriva un’acqua alta drammaticamente straordinaria. Film di chiusura dell’ultima Mostra, per molti sembrerebbe avere dei punti in comune con uno dei cult dalla location lagunare, ma il tentativo di paragonarlo a “A Venezia… un dicembre rosso shocking” (Nicolas Roeg, 1973), del tutto sproporzionato, rende questo “Lasciami andare” ancora più modesto nella sua ricerca di dare una dimensione onirica e soprannaturale a una vicenda condivisa di elaborazione del lutto, qui certamente più pianificata a una visione assai meno disturbante, non solo per il montaggio e l’inafferrabilità del racconto, ridotti semmai a una prevedibile creazione di atmosfera. Sciolto questo imbarazzante confronto, il film di Stefano Mordini, tratto dal romanzo “You came back” di Christopher Coake e scritto dallo stesso regista con Luca Infascelli e Francesca Marciano, sembrerebbe accontentarsi di Venezia per avere quel senso di mistero necessario, a maggior ragione con l’evocazione turistica dell’acqua alta, perlustrando corpi e sentimenti dei protagonisti, paradossalmente togliendone gli aspetti più sfuggenti: i troppi dialoghi, spesso didascalici; le spiegazioni anche scientifiche, che disturbano nella loro pedanteria, manco fossimo finiti in uno dei tanti mondi di Nolan; il loro bisogno di continui ormeggi realistici (le questioni immobiliari, il passato disonesto di Perla, tanta concretezza), mentre il film richiederebbe maggiore astrazione, in quella sua incapacità di fluttuare in modo inquietante tra i mondi dei vivi e quello dei morti affidandosi alle percezioni e all’ignoto. Mordini resta sospeso tra la volontà di un cinema d’autore e quello di genere, non affidandosi sul serio né all’uno, né all’altro, timoroso e preoccupato di doversi probabilmente far comprendere troppo. E mentre Stefano Accorsi riesce a trovare le sfumature migliori per accompagnare lo sbandamento esistenziale del suo Marco, Maya Sansa (Clara) e soprattutto Valeria Golino (Petra) sembrano galleggiare con figure più rigide. Il resto certo lo fa Venezia, i suoi angoli, le sue calli, le sue ombre, i suoi segreti. E a suo modo tiene un po’ a galla il film. Voto: 4,5.

UN DIVANO A TUNISI - Selma lascia Parigi e torna a Tunisi, sua città natale, dove la famiglia non è che la aspetti a braccia aperte. Fa la psicanalista, ormai è più vicina ai 40 che ai 30 anni, e cerca di aprire tra mille difficoltà una specie di studio approssimativo, tra lo stupore e la curiosità delle persone. Ma come donna e come psicanalista capisce presto che la sua scelta non è proprio semplice, boictottata da mezzo mondo, poliziotti e maschi in generale. Ma decide di andare avanti. Una commedia simpatica, che strappa qualche sorriso, specie nei momenti più surreali e grotteschi. Nel marasma che si crea davanti alla sua casa, con molte persone interessate a spiegare i propri problemi, Selma trova la forza di capire che il tentativo non è così assurdo. Dirige con buon senso del ritmo e con una sceneggiatura calzante Manele Labidi Labbé. Voto: 6.

SULL'INFINITEZZA - Cristallizzando ancora una volta la realtà, dove le figure umane si adeguano allo status inerte delle riprese (quasi sempre a inquadratura fissa), stavolta il regista svedese Roy Andersson affronta in modo ancora più radicale ed essenziale (ma anche più debole) il senso della vita, nella sfida tra il rapporto dell’uomo con l’infinito e quindi anche con Dio o la sua assenza, e la finitezza della cose umane, dai piccoli grandi rancori tra le persone, alla rottura dell’auto che ti lascia a piedi. Disossandoe slegando il racconto, senza ovviamente catturare mai una trama, Andersson conferma il suo sguardo attonito, caustico e irriverente, dove il punto di vista resta quello del piccione del suo film precedente, vincitore del Leone d’oro nel 2014, che stavolta forse si è messo a parlare (di chi è la voce di donna, che spiega ogni volta ciò che vede nella scenetta?). Il tutto resta apprezzabile, ma alla lunga mostra anche un’estetica a suo modo consumata, perché troppo ripetitiva, dal grigio cenere diffuso come fotografia all’essenzialità di cogliere più gli attimi della vita di ciascun personaggio, che non la stessa nel suo complesso. Va da sé che durata di appena 76’ resta un atout formidabile, al quale spetta immensa gratitudine. Voto: 5,5.

 

Ultimo aggiornamento: 09-10-2020 09:57 © RIPRODUZIONE RISERVATA