Pippo Maniero, il bomber giramondo ora allena: «Le partite le vincevo di cuore...e di tacco»

Lunedì 29 Giugno 2020 di Edoardo Pittalis
Pippo Maniero oggi
C’era quando il Venezia ha giocato il suo ultimo campionato in serie A. E c’era quando il Padova ha giocato l’ultima volta in A. Lui c’era sempre e lo faceva a suon di gol. Ne ha fatti 116 tra i professionisti, su trecento partite. Negli album Panini lo trovate con una decina di maglie diverse tra A e B. Una volta, per averlo, il Milan di Berlusconi ha pagato 10 miliardi di lire, che era una bella cifra prima dell’Euro. 
Oggi a 48 anni Pippo Maniero, padovano di Legnaro, allena il “suo” Legnaro, giusto per chiudere col calcio dove aveva iniziato. Due figli: Andrea 22 anni, Riccardo 10.
Il primo gol è quello che non si scorda mai? 
«Avevo 17 anni, col Padova, e l’allenatore Mario Collauti mi ha fatto esordire in B nel 1990 contro il Pescara a pochi minuti dalla fine, mentre stavamo perdendo. Era il Padova di Galderisi, Benarrivo, Di Livio, tutti destinati a una grande carriera. Ho segnato su cross dalla destra di Angelo Di Livio, sono saltato di testa che era la cosa che mi riusciva meglio. Entrare a pochi minuti dalla fine, mentre si perdeva, esordire e fare gol: non potevo immaginare un inizio più da sogno».
E il gol più bello?
«È lo stesso che i tifosi veneziani ricordano con più piacere: quello di tacco contro l’Empoli, su punizione di Recoba. Perdevamo 2-0 e eravamo in dieci, abbiamo finito vincendo 3-2. È cambiata la stagione del Venezia, eravamo quasi condannati e invece ci siamo salvati in anticipo. Il primo anno in A di quel Venezia è stato straordinario; il secondo un po’ meno! Col Venezia ho fatto una sessantina di gol in quattro stagioni».
Nato col pallino del calcio?
«La mia è stata un’infanzia felice tutta scuola e pallone, mio padre mi raccontava che correvo dietro a qualsiasi cosa che rotolasse, quasi fosse un istinto naturale. Ma allora non c’era molto altro da fare per un bambino a Legnaro. Siamo tre fratelli, la nostra era una famiglia di operai, papà Antonio lavorava all’Enel e mamma Marcella era casalinga. Fino a 12 anni ho giocato a Legnaro, poi mi ha chiamato il Padova».
E finalmente la serie A….

«L’anno dopo sono andato in prestito a Bergamo e ho esordito in A, l’Atalanta si giocava la Coppa Uefa e ho avuto la possibilità di stare accanto a gente come Caniggia, Evair, Stromberg. Un altro anno in prestito all’Ascoli allenato da Picchio De Sisti, dove ho segnato la prima rete in A contro il Bari, è finita 2-2. Un cross dalla sinistra e questa volta ho anticipato il difensore con l’esterno destro. Sono tornato a Padova fino alla serie A, anche se ho perso quasi un intero campionato per la rottura del crociato anteriore del ginocchio destro. Allora ci volevano molti mesi dopo l’operazione».
Col Padova il ritorno in A che mancava dai tempi d’oro di Rocco…
«Con quel Padova in due anni abbiamo colto il traguardo che mancava da 32 anni, grazie allo spareggio di Cremona contro il Cesena. Ed è stato fantastico con Sandreani alla guida. Una grande felicità specie per me e Pellizzari che siamo due padovani. Il campionato in A non è iniziato bene, cinque sconfitte di fila, ma c’è stata la partita di Napoli ed è cambiato tutto, anche per me. Ero in panchina e si perdeva 2-0 con tre espulsi, due nostri. È finita 3-3 con una doppietta mia e un gol di Longhi su rigore in uno stadio pieno di gente che gridava per il primo punto del Padova in serie A. Da quel momento abbiamo cominciato a crederci e ci siamo salvati. Con 9 gol sono stato il cannoniere, potevo sperare in una grande squadra».
Ed è arrivata questa grande squadra?
«Ne sono arrivate due, quasi una dopo l’altra. La prima è stata la Sampdoria di Eriksson con Zenga in porta, Mihailovic e Seedorf, Chiesa e Mancini. Sono partito bene, 5 gol nelle prime dieci partite, poi mi sono rotto il menisco e sono rimasto fermo per altri mesi. Quando alla Samp è arrivato Montella sono passato al Verona, ed è stata una bella esperienza, con 12 reti, la prima volta in doppia cifra, anche se la squadra è retrocessa. Ma per me è stata un’esperienza fondamentale che mi ha consentito di essere richiesto dal Parma che era una big, giocava in Champions. La squadra allenata da Ancelotti era fatta da giocatori impressionanti: Buffon, Cannavaro, Thuram, Benarrivo, Crespo… Ancelotti era speciale anche come uomo, aveva sempre una risposta speciale per tutti. Ho fatto metà anno a Parma con molti gol in pochi mesi».
E l’altra metà?
«L’altra metà a Milano perché mi ha chiamato il Milan. Altra grande soddisfazione e una grandissima emozione: fin da bambino tifavo Milan, avevo il poster di Gullit e Van Basten. Lo allenava Capello, sinceramente ho iniziato bene, con tre gol subito, ma era il peggior Milan degli ultimi vent’anni. Ma i compagni di squadra erano eccezionali: Seba Rossi in porta, Maldini, Costacurta, Boban, Savicevic, Donadoni, Weah, Kluivert. È stata un’annata iniziata male e finita peggio».
Ma davvero per averla in rossonero Berlusconi ha sborsato 10 miliardi di lire?
«Non ho mai saputo quanto davvero Berlusconi avesse pagato per me, si parlava di cifre alte, dicevano 10 miliardi, il giocatore è sempre l’ultimo a sapere quanto vale. Ero pronto a restare con un progetto nuovo, ma hanno fatto altre scelte, mi hanno lasciato libero di andare dove volevo. È cominciato il pressing di Marotta e Di Marzio perché scegliessi Venezia, erano gli anni di Zamparini, in panchina Novellino. Ho accettato la sfida e sono stati i quattro anni più belli dal punto di vista dei gol, ogni anno in doppia cifra. Il primo anno è stato eccezionale, il secondo un po’ meno: Zamparini non si conteneva, abbiamo cambiato tre allenatori, siamo retrocessi. Zamparini voleva la squadra per risalire immediatamente e così è stato, anche grazie ai miei 18 gol. Nell’ultima stagione Zamparini ha mollato tutto, quel mondo è finito e con esso quel Venezia. Zamparini ci ha portato a Palermo».
È anche il calciatore delle promozioni in A: Padova, Venezia, Torino….
«Quel Torino era una bella squadra con giovani come Quagliarella e Balzaretti. Un campionato sofferto con Ezio Rossi in panchina, dover sempre giocare per vincere non è facile. Ma dopo la promozione la società è fallita, ci hanno lasciato tutti liberi e avevo 33 anni, sapevo che quello sarebbe stato il mio ultimo campionato. Ho sperato inutilmente che mi richiamasse il Padova, anche per chiudere dove avevo iniziato, poi ho fatto l’unica cosa della mia vita calcistica che non rifarei: ho accettato l’offerta del Glasgow Ranger in Scozia, ma in due mesi non ho mai giocato. Alla prima sosta di campionato ho ringraziato e sono tornato a casa. Ed è finita col calcio».
E la Nazionale?
«Ho fatto l’Under 21 con Cesare Maldini che avevo 18 anni ed era una grande cosa, la maglia azzurra ti dà una bella emozione, difficile da spiegare. Ero orgoglioso di far parte di quella squadra, poi l’incidente al crociato mi ha fatto perdere la Nazionale. Per quella grande ci ho sperato dopo Venezia, ma c’era troppa concorrenza».
I grandi con cui ha giocato?
«A Brescia ho giocato con Baggio, a Milano con Maldini, a Venezia con Recoba, giocare con a fianco uno come lui ti rendeva tutto più semplice. Ma anche con Weah e Mancini, con Thuram e Buffon, Cannavaro. Il più forte che ho visto giocare, però, è stato Ronaldo dell’Inter, ero al Parma e ricordo una partita a San Siro, era impressionante in azione: abbinava forza fisica, tecnica, velocità, tutto con una semplicità impressionante, il pallone incollato al piede. Parlo di giocatori grandi anche come uomini. Con Baggio ci sentiamo sempre, la sua umiltà è impressionante».

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