L'addio di Robocop Zanni: "Orgoglioso del mio record di 58 cap consecutivi"

Lunedì 22 Giugno 2020 di Ivan Malfatto
Alessandro Zanni stende William Servat a Parigi in Francia-Italia del 2010

TREVISO - Alessandro Zanni a fine agosto lascerà il rugby giocato. A 36 anni, dopo 17 di carriera iniziata in serie B a Udine e arrivata al top passando per Calvisano e Treviso, entrerà nello staff dei preparatori atletici del Benetton. L’approdo naturale per chi studia scienze motorie come lui. Ma soprattutto per chi «se potesse vivrebbe in palestra», lo racconta in una battuta il suo ds e grande amico Toni Pavanello.
Diciassette anni ruspanti. Passati a spingere in mischia, saltare in touche, placcare o avanzare in mezzo al campo nel ruolo di terza linea, scalando in seconda con il ridursi della mobilità. Diciassette anni da favola. Nel corso dei quali un ragazzone friulano dal fisico di un Bronzo di Riace (107 chili di muscoli scolpiti su 1,93 d’altezza) si è trasformato nel secondo azzurro con più presenze in Nazionale (119) a pari merito con Martin Castrogiovanni, nell’uomo di ferro del rugby italiano. I sui 58 test consecutivi nell’arco di 5 anni e 3 mesi (da Italia-Pacific Islanders 17-25, 22 novembre 2008, a Italia-Scozia 20-21, 22 febbraio 2014) sono un record da vero Robocop.

Una grande carriera, Zanni. Da dove inizia a parlarne: una partita, una meta, uno scudetto, uno dei 4 Mondiali giocati?
«No, da un libro. “Open”, la biografia di André Agassi».

Perché proprio da qui?
«È il libro più bello che ho letto negli ultimi anni, ma mi ha stupito la sua confessione di essere arrivato a odiare il tennis. Io al contrario amo il rugby a tal punto che farò fatica a lasciarlo da giocatore».

Già pentito dell’addio?
«No, nella vita bisogna fare delle scelte. Ma inizio a vedere in agrodolce tutti gli episodi di questi anni, con quella sensazione malinconica che ti dà un tramonto».

Poteva scegliere di continuare a giocare al Petrarca Padova.
«La voglia c’era. Ringrazio Munari e Marcato per la chance. Però la proposta di Treviso è importante. Permette di costruirmi un futuro nella città dove vivo da 11 anni, sono nate le mie figlie e alla cui maglia sono legato».

Cose le mancherà di più del campo?
«Sembra strano, visto che passo per uno poco socievole, ma dico proprio la socialità, i riti che scandiscono le gare e la vita di squadra. Lo spogliatoio, la preparazione del match, gli scherzi nei viaggi con i compagni. Mi hanno fatto amare ancora di più il mio sport».

Ha ancora due mesi per viverli?
«Sì, vorrei fare disputare la gara d’addio in uno dei due derby Treviso-Zebre con cui a fine agosto riprenderà, e finirà, il nostro Pro 14 fermato dal Covid. Spero di riuscirci».

Pensa al match d’addio anche in Nazionale per il 120° cap?
«No, non credo ci sia la possibilità. Per essere convocato devi essere in attività. Io a ottobre sarò già nello staff dei preparatori atletici del Benetton».

Come lascia la maglia azzurra?
«Con amarezza per la mia ultima partita contro la Scozia. Dovevamo vincerla, invece l’abbiamo persa male (17-0)».

Rimpianti?
«Sì, per le tante partite dove il risultato avremmo potuto, e dovuto, portarlo a casa. Due su tutte: Italia-Francia 19-25 del 2019, l’abbiamo buttava via; Italia-Scozia 20-21 del 2014, il drop di Weir all’80’ ancora mi brucia».

I momenti migliori?
«Le vittorie 22-15 con l’Irlanda nel 2013 e 23-20 con il Galles nel 2007. Ci hanno regalato le uniche doppiette al Sei Nazioni, confermando una continuità di prestazioni trovata solo in quelle due edizioni del torneo».

E nelle undici stagioni al Benetton?
«Il successo al debutto in Pro 14 con il Llanelli, 34-28 nel 2010. Avevamo fatto una preparazione estiva incredibile. C’era l’incoscienza di affrontare una realtà nuova. Eravamo sotto il primo tempo e abbiamo recuperato. Una prova di carattere, ha dato alla squadra la consapevolezza della propria forza».

Allenatore era Franco Smith, ora ct azzurro.
«Nelle sue mani vedo un futuro positivo per l’Italia. Come ha saputo alzare il livello di quel Benetton, traghettandoci dal campionato italiano al Pro 14, così credo riuscirà a fare con i giovani dell’Italia, portandoli a livello internazionale».

Giovani che non batteranno mai il suo record di 58 test consecutivi.
«Sono stato fortunato a non subire gravi infortuni fino ai 30 anni, di solito quando disputi un numero così alto di gare succede. Allora pensavo solo a essere pronto fisicamente e mentalmente per la gara successiva. Una condizione necessaria, altrimenti il rugby di oggi, veloce, usurante e dagli impatti moltiplicati, non ti perdona. Ora che ci penso, è una striscia che mi rende davvero orgoglioso».
 

Ultimo aggiornamento: 18:24 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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