Il polesano Giacomo Matteotti, così il regime rivelò il suo vero volto. Quel terribile giorno del 10 giugno ​1924

Sabato 6 Giugno 2020
Il polesano Giacomo Matteotti, così il regime rivelò il suo vero volto. Quel terribile giorno del 10 giugno 1924
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Tra pochi giorni ricorrerà l'anniversario della morte di Giacomo Matteotti. È una data da commemorare in onore di un politico martire, ma è anche da identificare con l'involuzione totalitaria del regime fascista, che noi facciamo sommariamente coincidere con la marcia su Roma. In effetti, il 30 Ottobre 1922 furono l'azzardo di Mussolini e la pusillanimità del Re a consentire l'affermazione di un movimento che si sarebbe poi trasformato in dittatura. Tuttavia, pur tra le smargiassate delle camice nere, i bivacchi di manipoli, e le violenze squadriste, lo Stato conservò una struttura almeno formalmente parlamentare. Nel governo del Duce erano entrati liberali e nazionalisti, il Senato manteneva i suoi componenti di nomina regia e la stessa Camera dei deputati ospitava parlamentari di sinistra. Fu dopo l'omicidio dell'autorevole esponente socialista, che il fascismo mostro il suo volto liberticida e si convertì, anche ufficialmente in potere assoluto.

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LO SDEGNO
Matteotti era stato rapito a Roma il 10 giugno 1924, mentre camminava sul lungotevere Arnaldo da Brescia. Nei giorni precedenti aveva ripetutamente attaccato il fascismo come un movimento brutale e dispotico, e Mussolini aveva reagito minacciando una dura lezione nei confronti del parlamentare dissidente. Quando fu chiaro che il sequestro sottintendeva un omicidio, un'ondata di sdegno rischiò di travolgere il governo e il suo capo. Mussolini rispose in modo ambiguo. Il 13 Giugno qualificò il delitto un'opera diabolica immaginata da un nemico acerrimo, ma nello stesso tempo ammonì tutti a non farne una speculazione politica. Socialisti e liberali elencarono tutte le aggressioni compiute dai manganellatori, e accusarono Mussolini di essere, direttamente o indirettamente, l'ispiratore del crimine. 

Intanto le indagini proseguivano a rilento, e quando si avvicinavano ai vertici del partito venivano bloccate. Davanti alla complice inerzia del governo, i gruppi di opposizione, guidati da Filippo Turati, decisero di abbandonare la Camera e di ritirarsi sull'Aventino. Fu un gesto eticamente nobile ma politicamente disastroso.

Nel frattempo la magistratura individuò in un gruppo di fascisti gli esecutori materiali del rapimento: erano dei cani sciolti, già noti per le loro sortite violente. Furono tutti incarcerati e per un attimo sembrò che la Giustizia prevalesse sul sopruso. Ma una volta esauritasi l'indignazione popolare la solidarietà del governo riemerse nella sua indifferenza compiacente, mentre nelle provincie i vari caporioni incitavano alla riscossa e addirittura ai plotoni di esecuzione. Attribuendosi il ruolo di moderatore, Mussolini il 24 giugno deplorò l'assassinio di Matteotti e promise la rapida individuazione dei colpevoli. Ma mitigò questa apparente severità lamentando le prepotenze dei socialisti, e «il terrore effettivo esercitato da loro in diverse regioni d'Europa». Come monito salutare, concluse minacciando «le più gravi conseguenze se l'aumentare della tensione avesse fatto perder la pazienza alle file fasciste».

IL FERMENTO
Intanto tra le opposizioni il fermento cresceva, coinvolgendo anche organizzazioni nazionaliste e patriottiche, come l'Associazione Combattenti e Invalidi, che non potevano esser certo sospettate di simpatie anarchiche o rivoluzionarie. Decine di giornali, da quelli moderati come il Corriere e La Stampa fino a quelli più battaglieri come La Rivoluzione Liberale di Gobetti o Il Caffè di Ferruccio Parri denunciavano Mussolini come mandante quantomeno morale del rapimento. Ancora una volta si confidò nell'intervento del Re. Ma ancora una volta Vittorio Emanuele, mascherando la sua viltà dietro un formalismo di maniera, lasciò fare.

Il 16 Agosto fu rinvenuto il cadavere di Matteotti, sommariamente sepolto nella macchia della Quartarella a venti chilometri da Roma. La costernazione e la rabbia ripresero vigore, e le accuse a Mussolini aumentarono. Il Duce alternò ancora parole di moderazione legalitaria con aggressioni sempre più brutali, affidate allo spontaneismo dei gruppi di manganellatori. Il 31 Agosto, per fugare ogni dubbio, in un discorso ai minatori del Monte Amiata ostentò la sua sicurezza annunciando alle opposizioni che ne avrebbe fatto «strame per gli accampamenti delle camicie nere». Definendo meglio il concetto, Farinacci scrisse poco dopo che bisognava «o abbattere loro o abbattere il fascismo». Come ultimo tentativo, Giovanni Amendola chiamò a raccolta gli spiriti liberali e democratici pubblicando l'8 Novembre un manifesto a difesa di questi princìpi: vi aderirono persone di diverso orientamento, da Piero Calamandrei a Guido De Ruggiero, da Luigi Salvatorelli a Silvio Trentin. Il 6 Dicembre, il direttore del giornale Il Popolo, Giuseppe Donati, presentò formale denuncia al Senato, riunito in Alta Corte di Giustizia, contro il generale Emilio De Bono, capo della polizia e della milizia all'epoca dei fatti, per l'assassinio di Giacomo Matteotti. Il 27 Dicembre Il Mondo di Giovanni Amendola pubblicò estratti un memoriale di Cesare Rossi, ex capo dell'ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, dove si leggeva che «tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per la complicità del duce».

LA CONTROFFENSIVA
A questo punto Mussolini gettò la maschera.

Il suo fiuto politico, allora assai spiccato, lo avvertì che gli italiani erano ormai indifferenti e annoiati da tante rivelazioni rimaste senza seguito, e passò alla controffensiva. Il 3 gennaio, alla riapertura della Camera, dichiarò spavaldo: «Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se il fascismo è stato una associazione a delinquere, io ne sono il capo!». Contemporaneamente mobilitò la milizia, soppresse novantacinque circoli sospetti, sciolse venticinque organizzazioni sovversive, chiuse le sedi dei giornali di opposizione e dispose centinaia di arresti. La Camera, come significativa anticipazione del suo nuovo ruolo puramente formale, approvò in un solo giorno la conversione di oltre duemila decreti-legge. La dittatura era iniziata. I pochi ministri liberali furono licenziati e sostituiti con fascisti fedeli. Tra questi vi era Alfredo Rocco, nominato ministro della Giustizia, che cinque anni dopo avrebbe promulgato il nuovo codice penale. Il suo più importante redattore, Vincenzo Manzini, che a suo tempo aveva sostenuto che Matteotti se l'era cercata, lo definì «la massima espressione dell'ideologia fascista». Questo codice, firmato da Mussolini e dal Re, è ancora in vigore.

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