Coronavirus, quei sette giorni che hanno salvato il Veneto dal disastro

Sabato 6 Giugno 2020 di Angela Pederiva
Paolo Navalesi, direttore all'Azienda Ospedaliera di Padova

Dall'inizio dell'emergenza Coronavirus, 650 contagiati in Veneto sono finiti in Terapia Intensiva. «Un posto in cui si va per vivere, non per morire», rimarca il professor Paolo Navalesi, che di quell'unità operativa è il direttore all'Azienda Ospedaliera di Padova, oltre che il coordinatore della rete che comprende anche i nosocomi di Mestre e Treviso. A lui il presidente Luca Zaia cede la scena della quotidiana diretta televisiva e social, affinché racconti questi cento e passa giorni in primissima linea, a combattere su un fronte che ha contato finora 1.398 caduti (più altri 550 sul territorio): una tragedia immane, ma che sarebbe stata ancora più devastante, se non fosse stato per «una settimana e un'intercapedine».

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FORTUNA E ABILITÀ
Nelle ultime ore i nuovi casi sono stati 4 su 13.099 tamponi effettuati («meno dello 0,3 per mille», osserva Zaia) e i ricoverati in Terapia Intensiva sono scesi a 17 («di cui solo 2 positivi»). «Ha ragione il mio amico Alberto Zangrillo: clinicamente il Covid-19 non esiste più», rileva Navalesi. Ma c'è stato un tempo in cui non era così. «Il 27 marzo è stato il compleanno peggiore della mia vita, con il modello matematico che pronosticava 600 pazienti da intubare», ricorda il governatore. «Con onestà confida il primario devo dire che non mi aspettavo nulla di quello che è successo. Così noi intensivisti abbiamo cercato di guardare con occhi di bambino a qualcosa che non avevamo mai visto prima e che personalmente spero di non vedere più: pazienti che entravano sulle loro gambe e la notte dopo erano moribondi, un 30% di estubati che tornava a respirare ma con problemi neurologici seri... Per questo, dopo essermi confrontato fin da subito con un amico di Wuhan, mi sentivo tutti i giorni con i colleghi di Milano, che stavano una settimana avanti a noi e peggio di noi. Ecco, abbiamo avuto la fortuna di quel vantaggio, ma anche l'abilità di sfruttarlo: abbiamo fatto tesoro dell'esperienza della Lombardia, che poi a nostra volta abbiamo condiviso con il resto del mondo, da Lisbona, ad Amsterdam, a Boston».

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Ma a ridosso del picco dei ricoveri in Rianimazione, «quando per la prima volta a Padova eravamo sotto di due o tre letti», in sede di Comitato tecnico-scientifico è stata escogitata una seconda arma. «Ci siamo accorti spiega Navalesi che alcuni malati potevano essere gestiti in una fase intermedia. In due giorni il collega Andrea Vianello (direttore di Fisiopatologia Respiratoria, ndr.) ha messo in piedi un cinema che non vi dico, creando una sorta di intercapedine fra le Malattie Infettive e la Terapia Intensiva: la sub-intensiva, in cui abbiamo garantito la respirazione assistita, meno invasiva del tubo». «Questa scelta interviene Zaia ha trovato i magazzini pieni di attrezzature, a cominciare dai caschi Cpap, comprate a camionate». Conferma il primario: «Mi era stata data una lista del materiale messo a disposizione dal ministero, ma erano frattaglie e ho scartato quasi tutto. Nelle richieste di acquisto mi sono tenuto larghissimo, pensando allo scenario peggiore. Così non siamo mai arrivati al punto di dover decidere chi ricoverare e chi no. Alla fine il rapporto del 20% fra i ricoverati in Terapia Intensiva e il totale dei degenti è risultato uno dei migliori, se non il migliore, in Italia».

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IL CONFRONTO
Inevitabile il confronto fra il Veneto e la Lombardia: qui il tasso di letalità, calcolato sul totale dei malati, è del 10%, lì del 18%.

E in rapporto alla popolazione, la mortalità lombarda da Covid-19 è risultata quattro volte superiore a quella veneta. «Ma questi sono dati grezzi che non significano nulla precisa il professor Navalesi in quanto bisogna considerare se in Terapia Intensiva finiscono anche persone poco gravi perché c'è posto, o solo pazienti in condizioni estreme. Per fortuna, grazie alla settimana di vantaggio e all'intercapedine delle sub-intensive, non ci siamo trovati a dover fare la scelta: tu sì, tu no». Una drammatica valutazione che però era stata contemplata nel discusso documento della Società italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti), di cui lo stesso Navalesi ha scritto la versione veneta insieme a Davide Mazzon e Camillo Barbisan: «Quel testo non diceva nulla di sbagliato, ma a mio giudizio non era stato presentato bene. Perfino mia mamma, dopo aver letto il giornale, mi aveva chiesto: ma allora ci lascerete morire? Così l'abbiamo contestualizzato meglio». Ora restano i ricordi, «come quell'infermiere che si era contagiato ed è tornato a ringraziarci perché è guarito», ma anche un database che sfocerà in una pubblicazione scientifica, «che metteremo a disposizione del mondo». Rimanepoi un'ultima lezione: «Non possiamo più lavorare come isole, la rete che opera insieme produce qualità clinica ed evidenza scientifica. Se in autunno ci sarà davvero una nuova ondata, saremo in grado di rispondere nel giro di qualche ora».

Ultimo aggiornamento: 20:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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