L'ingegnere sul Ponte Morandi: «Lavorare qui è un'emozione così forte che fa dimenticare la paura del Covid»

Giovedì 30 Aprile 2020 di Massimiliano Cinque e Vanna Ugolini
Enrico Foschi

NARNI Enrico Foschi guarda il ponte in costruzione e con orgoglio pensa a quando il lavoro sarà terminato, così anche la preoccupazione per il coronavirus gli passa per un po' in secondo piano. Stava in cassa integrazione fino a poco tempo fa, fino a che l'azienda di impianti elettrici industriali per cui lavora non lo ha richiamato. «Dobbiamo andare a Genova, c'è da rifare il ponte sul Polcever», gli hanno detto. «Non c'ho pensato un attimo e non solo perché tornavo a lavorare» dice e c'è da capirlo. Andava a Genova, lì dove si consumò la tragedia, dove il crollo del vecchio ponte inghiottì 43 persone, uccidendole quasi tutte sul colpo. Sarebbe andato a Genova a partecipare ad un pezzo di nuova storia italiana.
Era una sfida oltre che un impiego. «È stato emozionante fin dal primo giorno racconta noi qui ci occupiamo di tutta la parte elettrica, l'intero sistema di elettricità e illuminazione dipende da noi. Tra un po' isseremo i lampioni che ha disegnato Renzo Piano, saranno esattamente 43, uno per ogni vittima, tutti di colori diversi. Sarà uno spettacolo», dice e la voce gli si rompe un po', gli si fa per un attimo tremolante per l'emozione e l'entusiasmo.
Sentimenti che animano chi, come lui, appartiene a quella gente fiera che ama il proprio lavoro e lo fa con la passione di chi sa di fare qualcosa anche per gli altri. «Io sono stato in molte parti del mondo rivela - in Namibia, per esempio, a fare una diga, oppure in Algeria e poi ho lavorato al primo Pianeta a Terni, negli anni Novanta, e poco tempo fa al nuovo Cospea Village. Sono in questa ditta dal 1981, ho fatto 40 anni di servizio ma non mi sono mai sentito come mi sento adesso a Genova. Il ponte è bellissimo, credetemi. Quello che vedete alla televisione o nelle foto dei giornali è niente al confronto visivo e non è ancora terminato. Quando lo sarà vi accorgerete di che opera si tratta. Tanto per dare un'idea informa - il ponte sarà lungo mille e sessantasette metri e alto 40, per portare su alcune parti ci sono voluti anche 12 giorni». Il cantiere del ponte non si è mai fermato, è sempre andato avanti pure con il coronavirus. «Andiamo su con l'elevatore tre alla volta spiega Enrico ci misurano la febbre tre volte al giorno: la mattina quando attacchiamo, alla pausa pranzo e poi la sera alla fine del turno. Abbiamo mascherine, guanti, disinfettante e tutto ciò che serve per la sicurezza. Il tampone? No, il tampone non ce l'hanno fatto». Libere uscite dopo il lavoro Enrico non se ne concede e rispetta puntualmente l'obbligo di stare in casa, in questo caso in alloggio.
«Se esco è per fare la spesa o per comprarmi le sigarette, sennò sto alla base. Oggi scendo a Narni per le festività del 1° maggio, poi torniamo su, avremo da fare almeno fino a fine estate». Lavorare in tempi di coronavirus non è facile per nessuno, stare in un cantiere dove è obiettivamente più complicato, per ovvie ragioni, conciliare attività e sicurezza è ancora più difficile e fa venire in mente mille pensieri. «Le distanze fra di noi? riprende Enrico -sì cerchiamo di rispettare anche quelle, devo dire che i responsabili e la mia ditta sono tutti estremamente attenti alle norme, sia quelle igieniche per evitare occasioni di contagio, sia quelle che riguardano l'operatività ordinaria». Il lavoro va avanti spedito, tutta Genova sta aspettando che Enrico e gli altri finiscano l'opera per poterla finalmente vedere e vivere. «A Genova si sta bene confessa mi chiedete se la gente esce? Ebbene sì, esce, nel pomeriggio vediamo tante persone in giro, anche senza protezioni ma non sappiamo se abbiano o meno validi motivi per farlo.

Noi, comunque, le regole le rispettiamo».

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