Flavio Bucci morto in povertà a 72 anni: da Ligabue a Sorrentino, storia di un irregolare di talento

Martedì 18 Febbraio 2020
Flavio Bucci morto in povertà a 72 anni: da Ligabue a Sorrentino, storia di un irregolare di talento

Flavio Bucci è morto da solo, a Passoscuro, su quel litorale romano che da alcuni anni aveva eletto a ultimo rifugio per una vecchiaia senza un soldo dopo una vita di splendori ed eccessi, esaltazioni e depressioni. Flavio Bucci (torinese del '47, ma di famiglia un po' molisana e un po' foggiana) ha chiuso oggi la sua esistenza terrena pare per colpa di un infarto. Ma, come amava ripetere, «'c'è una sola cosa che ti uccide, però non lo sai mai prima quale sarà» e forse poco gli importava, dopo una vita spesa senza remore e senza mai occultare i suoi vizi, dalle sigarette all'alcool, dalla cocaina alle donne. 

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«I suoi ultimi anni non sono stati sereni purtroppo - dice oggi il figlio Alessandro, che per un tratto della vita lo ha accompagnato come attore - ed è triste pensare che in troppi lo abbiano abbandonato dopo una carriera così intensa tra il cinema e il teatro. Ma come spesso accade agli artisti aveva una sensibilità più acuta e dolorosa di noi uomini normali e il gran pregio di non rinnegare nulla di sé, neppure gli sbagli». Cresciuto nella Torino del dopoguerra tra gli immigrati del sud e poi contagiato dall'euforia della rinascita italiana, Flavio Bucci aveva abbracciato il palcoscenico alla scuola del Teatro Stabile come un amante focoso e impaziente.
Alla sua passione regalava da subito tutto se stesso, sentendosi erede di un teatro classico, lontano dalle bizzarrie dell'avanguardia, ma aperto alla sperimentazione e al fascino dei testi, tra Shakespeare e Gogol («Le memorie di un pazzo» è stato il suo cavallo di battaglia per oltre 30 anni), Virginia Woolf e Pirandello a cui lo accomunava la visione da lunatico solitario, caparbio e spigoloso.

 

Sedotto dal cinema e dalla bella vita, Flavio Bucci era sbarcato a Roma all'inizio degli anni '70, forte di un'amicizia con Gian Maria Volonté che prima lo aveva iscritto «quasi a forza» al Partito Comunista e poi gli aveva presentato Elio Petri imponendolo nel cast di «La classe operaia va in Paradiso». 

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Il sodalizio - burrascoso e felice - con il regista romano lo portò ad imporsi presto, volto anomalo e indimenticabile che avrebbe avuto la sua celebrazione da protagonista nel personaggio di Total in «La proprietà non è più un furto» (1973). Poco dopo, in uno slancio di faticosissimo virtuosismo, prese le fattezze e l'anima del poeta e pittore Ligabue nell'omonimo sceneggiato Rai di Salvatore Nocita. Un trionfo perfino inaspettato che incollò ai teleschermi più di 15 milioni di spettatori e fece di Bucci una stella in palcoscenico.

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Più tardi Flavio Bucci avrebbe dato il volto al protagonista di Quer pasticciaccio brutto di via Merulana, diretto da Piero Schivazappa, dal romanzo di Carlo Emilio Gadda. Il cinema invece gli ha ritagliato prevalentemente parti di antagonista e caratterista cui l'attore dava ogni volta un graffio originale di umanità rabbiosa. «Erano gli anni in cui a Hollywood apparivano facce strane, da Dustin Hoffman a Al Pacino - raccontava - e questa linea di mezzo, tra gli scultorei protagonisti della generazione precedente e i colonnelli della risata si adattò bene a gente come me, irregolari di talento». 

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La lista delle sue apparizioni è lunghissima anche se poche volte la qualità dei lavori corrispondeva al suo prorompente talento. Tra tanti titoli di Flavio Bucci piace ricordare il metodico e nevrotico giocatore di «Il sistema infallibile» diretto da Carlo di Carlo, il pugliese di «L'Agnese va a morire» con Giuliano Montaldo, il pianista cieco di «Suspiria» con Dario Argento, lo Svitol di «Maledetti vi amerò» con Marco Tullio Giordana, il prete blasfemo e brigante de «Il marchese del grillo» con Mario Monicelli, le collaborazioni con Eriprando Visconti e il viscido Evangelisti ne «Il divo» di Paolo Sorrentino. 
 

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Flavio Bucci, grazie all'amico Marco Mattolini, ha lavorato fino a poco tempo fa, prima con un recital autobiografico al vetriolo e poi con un bel collage di liriche e pensieri da Giacomo Leopardi, grazie a Riccardo Zinna ha avuto un toccante omaggio da vivo alla Festa del Cinema di Roma con il documentario-ritratto «Flavioh». Ha avuto due figli dalla compagna Micaela Pignatelli e un terzo dalla produttrice olandese Loes Kamsteeg. Grazie all'amore del fratello Riccardo molte volte si è salvato da se stesso. Ma, come amava dire, «Non mi pento di niente, ho amato, ho riso, ho vissuto, vi pare poco?» .

Ultimo aggiornamento: 18:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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