Egea, la bambina con la valigia: «La mia storia di esule»

Domenica 9 Febbraio 2020 di Angela Pederiva
Egea, la bambina con la valigia: «La mia storia di esule»
L'icona del Giorno del ricordo è una foto in bianco e nero, rimasta per oltre mezzo secolo all'interno di una vecchia scatola, rimbalzata dall'Istria, alla Sardegna, al Trentino Alto Adige. A notarla nel 1997 fu il Museo storico italiano della guerra di Rovereto, fra i primi in Italia ad allestire una mostra dedicata alle vittime delle foibe e all'esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati, quando la ricorrenza del 10 febbraio non era ancora stata istituita per legge. In quel momento Egea Haffner era ormai una signora matura, ma da allora per tutti è diventata la bambina con la valigia, per citare il titolo del docufilm che domani sarà proiettato a Bassano del Grappa, città che alla esule giuliana n.30001 ha proposto la cittadinanza onoraria, in qualche modo per bilanciare l'analoga deliberazione in favore di Liliana Segre: «Un conferimento che ho rifiutato spiega ora la 78enne al Gazzettino perché non voglio essere messa in contrapposizione alla senatrice, che ammiro moltissimo, come se fossimo due donne da catalogare l'una a destra e l'altra a sinistra, quando invece siamo state due bimbe dalle storie diverse ma ugualmente drammatiche».



A POLA
Quella di Egea è cominciata il 3 ottobre 1941 a Pola, all'epoca situata in Italia, da un incrocio mitteleuropeo: il nonno Giulio Haffner era originario di Budapest e la nonna Maria Billich era proveniente da Vienna. Dal loro matrimonio erano nati quattro figli, tra cui Kurt, che a sua volta si era sposato con Ersilia Camenaro. «Con i miei genitori vivevo dietro l'Arena, dalla terrazza vedevo la chiesa di Sant'Antonio», racconta la signora Haffner nel video del regista veronese Mauro Vittorio Quattrina, prodotto su iniziativa dell'associazione culturale scaligera Storia Viva. Di quel periodo la donna ricorda «i giochi a casa dei nonni, il giardino, il nespolo, la fontana con i pesci rossi, i tesori che ci inventavamo di nascondere e ritrovare sotto la terra: foglie, petali, pezzi di carta stagnola e di vetro». Ma anche «i bombardamenti in tempo di guerra, il suono delle sirene, la paura che avevamo mentre correvamo dentro i rifugi, con papà che mi teneva sotto il braccio per proteggermi». Tra gennaio 1944 e marzo 1945 l'aviazione alleata bersagliò la città, che si trovava sotto l'amministrazione militare tedesca. E il tedesco era una lingua che Kurt parlava molto bene, al punto da essere utilizzato come interprete dall'esercito. «Forse questo mormora Egea è stato il motivo per cui sono venuti a prelevarlo, nella notte fra il 4 e il 5 maggio 1945».

LA FOIBA
La mattina dopo sarebbero cominciati i 45 giorni di occupazione di Pola, poi annessa alla Jugoslavia, ad opera dei partigiani guidati dal maresciallo Josip Broz Tito. «Suonarono alla porta rievoca Egea era la polizia slava, chiamata Ozna. Mamma andò ad aprire, le chiesero se Kurt Haffner era in casa, lei disse di sì. Papà arrivò e chiese: È successo qualcosa?. Gli risposero: No no, è una pura formalità, deve soltanto venire un attimo con noi al comando, non serve che si porti dietro niente. Andò. Da allora non si seppe più niente di lui. Nonna ogni sera metteva via un pezzo di pane: Forse el torna, speremo che el torni.... Mia zia Ilse con la bicicletta andò fino a Trieste e a Capodistria, pensando che l'avessero messo in qualche campo di concentramento, ma era come se fosse finito nel nulla. Quelli delle Ss, quando prendevano gli ebrei, li numeravano. Invece i titini non facevano né registri, né processi. Quei poveretti venivano seviziati, legati l'uno all'altro con il fil di ferro, un colpo alla nuca e giù nelle voragini carsiche. Dei nostri conoscenti ci hanno detto che probabilmente mio padre è stato buttato nella foiba di Pisino, però non ci sono certezze».

LO SCATTO
Esposti alle violenze e alle rappresaglie da parte dei comunisti jugoslavi, i residenti di nazionalità e lingua italiana furono costretti all'esodo. Nell'estate del 1946 anche gli Haffner si imbarcarono sul piroscafo Toscana. «Prima di partire spiega Egea il 6 luglio mamma pensò di lasciarmi un ricordo della mia terra e chiamò un fotografo per farmi un ritratto. Indossavo un bellissimo vestito di seta, mia zia Ilse mi pettinò con i boccoli. Poi zio Alfonso, un po' ridendo, disse: Spetta, ghe demo anca un ombrelin.... Mi misero in mano l'ombrello e una borsa da viaggio, su cui sempre zio Alfonso attaccò un cartello con su scritto: Esule giuliana n.30001. Trentamila erano gli abitanti di Pola». Più una: quella bimba che non aveva nemmeno 5 anni, immortalata con il broncio, spesso interpretato come prova della sopraffazione. «In realtà confida ero infastidita dagli ordini del fotografo: Gira de qua, gira de là.... Invece nelle altre foto scattate quel giorno, e custodite nella scatola, sono molto sorridente: ero troppo piccola per capire cosa mi sarebbe successo».

A NORDEST
Prima l'approdo a Cagliari, poi il trasferimento a Bolzano. La diaspora dei parenti, la povertà, il piccolo appartamento condiviso da tre famiglie, il collegio. Ma anche il corso da corrispondente in lingue estere, il lavoro da impiegata in un ente pubblico, l'amore con Giovanni che dura da 54 anni, due figlie, sei nipoti, la serenità raggiunta nella casa di Rovereto, l'improvvisa notorietà scaturita da quella foto in bianco e nero, «a volte adoperata a sproposito, o senza il mio permesso». No, Egea Haffner non vuole nessuna cittadinanza onoraria, anche se a Nordest hanno fatto a gara per dargliela. «Sono già cittadina italiana, ho la mia storia e mi basta la mia tragedia, non voglio essere strumentalizzata. Per questo ho mandato un'email alla senatrice Segre, raccontandole la vicenda della fotografia: mi ha risposto subito, è stata davvero gentile». Egea e Liliana, due bambine strappate ai loro papà e consegnate loro malgrado alla Storia.
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