Massimo Zamboni dai CCCP al nuovo libro sulla Mongolia: «Tutto è iniziato 24 anni fa»

Giovedì 6 Febbraio 2020 di Valentina Venturi
Massimo Zamboni
A Sanremo l’esibizione di Achille Lauro smuove gli animi e le polemiche. Per Massimo Zamboni, co-fondatore del gruppo punk rock italiano “CCCP – fedeli alla linea” prima e dei “CSI” dopo, autori di pietre miliari del rock come "Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi", sono piccolezze. «Non guardo Sanremo - racconta - so solo che c’è. E non vedo degli eredi. Non perché i nostri fossero livelli irraggiungibili, lo dico da semplice fan: di fatto non sono ancora stati raggiunti». Zamboni è a Roma il 6 febbraio alla libreria di via Appia Nuova per presentare il suo nuovo libro “La macchia mongolica” (Baldini+Castoldi), dedicato al suo rapporto con la Mongolia e con la figlia Caterina.

Di cosa tratta?
«È diviso in tre parti: la prima è incentrata sul viaggio che feci 24 anni fa con i CCCP e mia moglie. Lì abbiamo deciso di fare un figlio: la nostra amata Reggio Emilia non poteva ispirarci questo desiderio. Serviva un luogo naturale e codificabile».

Le parti restanti?
«Quando dopo due anni è nata Caterina abbiamo trovato la macchia mongolica su di lei ci siamo resi conto di quanto fosse un segno forte. Tre anni fa siamo tornati in Mongolia insieme e infine nostra figlia è andata da sola. Ecco i tre capitoli del libro».

Chi erano i CCCP?
«Abbiamo sempre agito in maniera molto istintiva e istintuale. C’era l’incapacità di rapportarsi al mondo musicale da musicisti e questo ha liberato delle facoltà che gli altri non hanno perché sono in grado di fare quello che vogliono. Abbiamo sempre sentito una costrizione e penso di poter parlare anche per Giovanni (Lindo Ferretti, ndr.) quando dico che siamo stati in grado di esprimere soltanto poche cose, in maniera molto chiara e definita».

Come scrivevate le canzoni?
«Vedevamo nascere le cose così come nasce una creatura, ci mettevamo a suonare di solito arrabbiati gli uni con gli altri, molto scontrosi e scontenti. E lì in mezzo nasceva qualcosa di solido e ci faceva capire che, nonostante la nostra indipendenza e la profonda lontananza gli uni dagli altri, avevamo trovato un denominatore comune».

Eravate consapevoli del successo?
«Avvertivamo la nostra forza, ma abbiamo avuto la capacità di buttar via tutto quello che abbiamo creato. Quando eravamo primi in classifica e con i palazzetti di tutta Italia esauriti, alla fine dell’ultimo concerto siamo scoppiati. Non abbiamo mai avuto la minima prudenza per sopravvivere. Ci siamo sempre buttati senza rete».

Lei e Lindo Ferretti avete ancora rapporti?
«Siamo fisicamente persi, ma mentalmente credo di no».

Cosa descrive “La macchia mongolica”?
«Viviamo in tempi in cui c’è un accanimento e una violenza rispetto all’idea di identità che viene considerata una frontiera da difendere. Invece una piccola macchia mongolica sulla pelle di una piccola bambina dimostra che l’identità è una menzogna che ci creiamo per poter vivere. Invece dovremmo accettare la mescolanza che inevitabilmente ci compone».
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