Diritti e misure/ I limiti alla libertà per tutelare la salute

Sabato 1 Febbraio 2020 di ​Carlo Nordio
Un grande filosofo definiva “le bon usage des maladies” come l’opportunità, durante le disgrazie fisiche, di dedicarsi alla preghiera, alla lettura, e più in generale al pensiero. Esiste anche un’altra possibilità. Quella di riflettere su alcune conseguenze collettive delle malattie che ci affliggono. Una di queste conseguenze è l’impatto che un’epidemia, come quella che il mondo sta ora affrontando, produce sui nostri diritti, e principalmente sulla libertà.

Una prerogativa, quest’ultima, che siamo abituati a considerare come un aspetto naturale della vita, salvo sentirne l’importanza, come l’aria, quando ci viene a mancare. Mentre dimentichiamo che la Libertà, come la Giustizia e altri valori importanti, sono dei lussi che la civiltà può permettersi solo quando ha consolidato alcuni risultati ancor più fondamentali: come l’alimentazione, la salute, e la sicurezza. Uno Stato può infatti sopravvivere senza libertà e senza giustizia, come avvenne per gli imperi di un tempo e per le più recenti dittature naziste e comuniste.

Ma non può esistere senza il cibo, perché muore; senza la salute perché si atrofizza, e senza la sicurezza, perché si disgrega. Più o meno consapevoli di questo, i governi e anche i cittadini hanno accettato, in certi momenti, le limitazioni della libertà nell’interesse di beni superiori.L’apparizione del coronavirus e le sue conseguenze dovrebbero appunto farci riflettere su questo. La Cina, Paese postmoderno ma di scarsa democrazia, ha avuto buon gioco a ingabbiare l’informazione, a chiudere province e città, e persino a edificare in pochi giorni un ospedale che da noi avrebbe richiesto decenni. Ma anche i Paesi occidentali, in misura attenuata, hanno chiuso aeroporti e porti, limitando viaggi, presenze e movimenti. E nessuno ha protestato, perché il timore della diffusione del contagio prevale sul sacrificio di alcune prerogative che fino a ieri ci sembravano intangibili. 

In fondo è solo questione di proporzione: così accettiamo di non uscire di casa se ci passa il giro d’Italia; di non usare l’auto se lo smog aumenta, e di trasferirci forzatamente di un isolato se gli artificieri devono disinnescare una bomba inesplosa. Stiamo sicuri che in presenza di una carestia, o di una rivoluzione, l’esigenza di cibo e di sicurezza prevarrebbe su ogni altra considerazione: primum vivere, deinde philosophari.

Da questi principi quasi banali discende un corollario altrettanto evidente: che queste limitazioni non hanno niente a che vedere con il razzismo, il sovranismo, e nemmeno con l’identità culturale. Nessuno infatti si sogna di accusare l’Occidente di discriminazione razziale se limita l’ingresso dei cinesi, come nessuno lo farebbe domani se, ad esempio, nel cuore dell’Africa nera scoppiasse un’epidemia di altra natura e dimensione. 
Si tratta di autotutele che non dipendono da pregiudizi innominabili, ma da semplici indagini statistiche sulla provenienza del contagio e sulla necessità di isolare i probabili eventuali portatori. Questo perché, messi alle strette, noi istintivamente tendiamo a difenderci dalle insidie che minacciano la salute, la sicurezza e la sopravvivenza, anche a costo di smentire anni di belle prediche, che non hanno tenuto conto della nostra fragilità. 

Ne è esempio il caso della “Costa Smeralda”, una nave con seimila crocieristi tenuti bloccati per un giorno intero per il semplice sospetto di contagio di due passeggeri cinesi. Pericolo fortunatamente rivelatosi infondato, ma che è costato agli imbarcati una forte limitazione dei loro movimenti. E possiamo presumere che se i due malati sospetti fossero risultati contaminati dal virus, l’odissea degli altri si sarebbe protratta per una lunga quarantena.
Questo ci induce a una riflessione finale: che lo Stato, e quindi la politica, ha il potere-dovere di intervenire, anche limitando i nostri diritti, quando sono in gioco interessi collettivi superiori, purché ovviamente si rispettino i princìpi della temporaneità della coazione, della piena assistenza a bordo, e più in generale di una efficiente gestione umanitaria.

Nella speranza, ovviamente, che la Magistratura non intervenga a indagare i responsabili per sequestro di persona. Si tratta infatti di un compito esclusivamente politico, di cui il governo dovrà rispondere - se si è comportato bene o male - esclusivamente in termini politici, senza cioè interferenze delle tonache o delle toghe. E chissà che questo “buon uso delle malattie” non ci induca, alla fine, anche a un buon uso della giustizia.
 
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