Riccardo Selvatico, sindaco-poeta: tagliò le tasse e proibì la recita della preghiera a scuola

Lunedì 27 Gennaio 2020 di Alberto Toso Fei
Riccardo Selvatico visto da Matteo Bergamelli
Riccardo Selvatico (1849-1901)
commediografo, poeta, diciassettesimo sindaco di Venezia


In soli cinque anni di mandato come sindaco, tra il 1890 e il 1895, rivoluzionò Venezia – lui esponente progressista – dopo vent'anni di dominio politico e culturale clericale e conservatore: ridusse le tasse e il costo dei traghetti. Aumentò i salari dei maestri e migliorò gli edifici scolastici, erigendone di nuovi. Fece ristrutturare e costruire case popolari, scavò rii e pavimentò campi. Sul fronte politico e anticlericale inaugurò il monumento a Paolo Sarpi e proibì la recita della preghiera a scuola. Ma fu verso la fine del suo mandato che Riccardo Selvatico, il “sindaco poeta”, come lo appellarono spregiativamente i suoi detrattori (in realtà donandogli per sempre un soprannome amato dai veneziani), assieme ad Antonio Fradeletto e altri amici ideò il suo capolavoro: l'Esposizione Internazionale d'Arte – destinata a divenire “La Biennale” – che fu concepita ai tavolini del Caffè Florian e aprì i battenti il 30 aprile 1895.

E pensare che Selvatico, la cui nomina era stata decisa in un momento di crisi della maggioranza mentre lui si trovava a Milano (gli fu comunicata con un telegramma), sindaco non voleva proprio diventare: accettò solo dopo le pressanti insistenze dei suoi sostenitori, ovvero lo stesso modo in cui era entrato in politica. Perché Riccardo Selvatico voleva solo continuare a fare il drammaturgo e il poeta, come già da molti anni faceva, contribuendo anche in quel settore in maniera determinante al rilancio della lingua e dell'anima veneziana, che si rispecchiava in ogni sua opera.

Figlio del possidente terriero Ercole Selvatico e della contessa padovana Luigia Cortesi, nacque a Venezia il 16 aprile 1849 dopo il fratello Silvestro, scienziato e patriota (che aveva lasciato il Veneto austriaco per studiare all’Università di Torino e che partecipò come volontario alla terza guerra di indipendenza), e prima di Bianca, destinata a diventare sposa dell’amico e stretto collaboratore Giovanni Bordiga. Si laureò in Giurisprudenza a Padova ma fin da subito ebbe ben chiara in mente la sua vera vocazione, e iniziò a scrivere commedie di ambientazione popolare (come “La bozeta de l'ogio” e “I recini da festa”) che fecero parlare di rinascita della grande tradizione teatrale veneziana: la Venezia che vi veniva rappresentata era quella dei popolani, povere “impiraresse” e gondolieri. Ma erano opere vivaci e incalzanti, e incontrarono i favori del pubblico.

A ventidue anni sposò l'amore della sua vita: Anna Maria “Nina” Charmat, dalla quale e i figli Lino e Luigi, che divennero entrambi pittori. Per lei scrisse innumerevoli poesie, che furono però pubblicate dopo la sua morte. Il suo lavoro artistico conobbe alti e bassi, ma fu intenso e varcò presto i confini veneziani; uomo di teatro a tutto campo, Selvatico fu in contatto con Giuseppe Giacosa, e nel 1884 aiutò Giovanni Verga nella rappresentazione della “Cavalleria rusticana”. Due anni prima aveva messo in scena con Giacinto Gallina “Pesci fora de aqua”, rappresentando in scena – già allora! – la proverbiale incapacità dei veneziani a vivere in terraferma.

Poi l'avventura politica, iniziata come consigliere e proseguita come sindaco. Malgrado i risultati ottenuti, la controffensiva della coalizione clerico-moderata (sostenuta dal patriarca Sarto, futuro Papa) – che lo considerava eccessivamente laico – aprì a Venezia la lunga stagione del sindaco Filippo Grimani, mentre per Selvatico iniziò la carriera parlamentare: seguì i temi a lui cari, come la nuova legge sui maestri e una normativa specifica per la laguna di Venezia, oltre alle successive Esposizioni d’arte.

Morì improvvisamente il 21 agosto 1901, rientrato nella villa di famiglia a Roncade, dopo una tumultuosa seduta del consiglio comunale di Venezia. È sepolto a Venezia nel cimitero di San Michele. Fra i versi che ci rimangono di lui ve ne sono di celebri, come quelli dedicati alla sua Venezia: “No gh’è a sto mondo, no, Cità più bela / Venezia mia, de ti, per far l’amor / No gh’è dona, nè tosa, nè putela / Che resista al to incanto traditor. / Co’ un fià de luna e un fià de bavesela / Ti sa sfantar i scrupoli dal cuor / Deventa ogni morosa in ti una stéla / E par che i basi gabia più saor”.
 
Ultimo aggiornamento: 28 Gennaio, 12:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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