Il taglio dell’Irpef/ Il solito errore di rincorrere gli elettori, non la crescita

Mercoledì 15 Gennaio 2020 di Paolo Balduzzi
Il 2020 sembra aprirsi nel segno della revisione dell’Irpef, la principale imposta italiana, che ogni anno raccoglie circa 180 miliardi di euro (contro i 130 circa dell’Iva, seconda in questa classifica). È questa una buona notizia? La risposta, poco sorprendentemente, è la seguente: «Dipende».
Il fatto che l’argomento venga affrontato a gennaio, al riparo dalla necessità di impegni precisi e vincolanti cui obbliga una legge di bilancio, e opportunamente poco prima di scadenze elettorali importanti (nello specifico, le elezioni regionali, in primis quella in Emilia-Romagna), già di per sé non va messo tra gli elementi positivi. 
Sia chiaro: la riduzione delle imposte sul reddito è sicuramente una buona notizia. Incentiva gli individui a cercare lavoro, incentiva le imprese a domandarlo, stimola i consumi e anche il risparmio. Tutti comportamenti virtuosi, il cui costo è quello di una diminuzione di gettito per lo Stato.

Ma o un intervento di riduzione fiscale è inserito in un progetto completo e di lungo termine sulla riforma del tributo stesso, oppure ha senso solo se è preceduto da interventi di stimolo della crescita economica che, in un processo virtuoso, possano compensare questi sconti fiscali.
È l’annoso problema, politico ma anche economico, del conflitto tra efficienza ed equità, o tra produzione e distribuzione. L’imposta sul reddito ha la duplice finalità di raccogliere gettito e di avvicinare le capacità contributive degli individui, attraverso la progressività, e quindi di ridurre la disuguaglianza. 

Ma è impossibile ignorare che, come ogni buon studente di economia sa, prima di distribuire le fette di una torta è bene provare a cucinare la torta più grande possibile, evitando sprechi ed evitando distorsioni dei comportamenti.
L’impressione, invece, è che il legislatore si occupi solo dell’aspetto distributivo, peraltro più con finalità elettorali che non di benessere sociale, perché orientate più alla propria base elettorale che a chi ne ha davvero bisogno. 
La riprova è che, altrimenti, prima di mettere sul tavolo il necessario e auspicabile taglio dell’Irpef (o come piace dire ai politici, il taglio del cuneo fiscale), il legislatore avrebbe affrontato la necessità di rilanciare gli investimenti e le opere pubbliche, di valorizzare qualitativamente e quantitativamente la spesa in istruzione, di contenere la spesa pensionistica e assistenziale. 

Invece, proprio questa stessa maggioranza sembra totalmente prigioniera del recente passato, non riuscendo a mettere in discussione (anzi addirittura rilanciandolo) il reddito di cittadinanza-– misura totalmente incapace di rilanciare l’occupazione - né tanto meno “Quota 100”, che invece andrebbe cancellata il più rapidamente possibile. Oltre a non ignorare interventi di rilancio dell’economia, comprese eventuali, delicate, ma anche necessarie cure shock che da tempo richiediamo, il legislatore non può far finta di non capire che uno degli strumenti utilizzabili non deve essere certo altro debito pubblico bensì il carico delle imposte indirette, vale a dire l’Iva.

Perché non cogliere l’occasione di una riforma dell’Irpef proprio per mettere finalmente mano alla giungla delle spese fiscali, vale a dire alle deduzioni e detrazioni, o tax expenditures per gli addetti ai lavori? Si tratta di sconti sull’Irpef che, a seconda dei calcoli, possono valere anche oltre 100 miliardi di euro. Un tesoretto da cui è necessario attingere tanto per liberare risorse nelle mani di lavoratori e imprese quanto per scardinare sistemi di benefici consolidati che si protraggono da tempo ma senza alcuna logica economica e distributiva.
Infine, vale la pena di sottolineare come eventuali sconti fiscali che intervengano sull’aliquota di contributi previdenziali (il 33% per i lavoratori dipendenti, di cui i 2/3 a carico delle imprese) sono da considerare con estremo spirito critico.

Questi soldi finirebbero nelle tasche degli italiani solo in maniera apparente, perché le future prestazioni previdenziali dipenderanno proprio dai contributi versati oggi. Minori saranno questi versamenti e minori saranno le pensioni, a meno di non dirottare i guadagni da benefici fiscali nella previdenza complementare.
A tutti farebbe piacere pagare meno imposte. E a ogni politico piace impegnarsi in tal senso. Ma il taglio dell’Irpef non deve essere né una illusione né una mera promessa elettorale. A quasi cinquant’anni dalla nascita di Irpef e Iva, il Paese sente come mai prima la necessità di una riforma orientata alla crescita e al benessere. Possa il legislatore comprendere e realizzare queste sacrosante aspettative senza pensare solo al proprio tornaconto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA