Chiuda, anzi no Industria in balia delle procure

Lunedì 18 Novembre 2019 di Carlo Nordio
Una trentina di anni fa, proprio mentre iniziavano le polemiche sul Mose, si verificò a Venezia una situazione singolare. I prestigiosi locali di Rialto che ospitavano il Tribunale e la Procura furono dichiarati inagibili per obsolescenza dell’impianto elettrico. In effetti, vedendo i fili pericolosamente sporgenti dai muri, tutti sapevano (sapevamo) che alla prima acqua alta il rischio di incendio sarebbe stato reale. 

Poiché tuttavia l’attività giudiziaria non poteva essere chiusa da un giorno all’altro, attendemmo pazienti che il Comune trovasse un’idonea sede sostitutiva. Quest’ultima, dopo varie ricerche, fu individuata in un palazzo che ai suoi tempi era stato un sontuoso bordello della Serenissima ma che, vista l’epoca e la funzione, mancava dei servizi igienici adeguati. I tecnici proposero una soluzione provvisoria con l’erezione di paratìe per l’apprestamento dei bagni. Ma intervenne subito il veto delle Belle Arti: negli edifici storici non si tocca nulla.

Si presentò così quella perniciosa contestualità di leggi contraddittorie che costituisce l’insolubile dramma del nostro Paese. Perché a quel punto ci trovavamo di fronte a due normative: l’una imponeva la presenza dei bagni; l’altra ne vietava la costruzione. Il problema fu risolto in modo sommario, finché il palazzo di Rialto non fu finalmente restaurato. 

La stessa situazione, aggravata dalla minaccia di una colossale perdita economica e occupazionale, si presenta oggi all’Ilva di Taranto, dove il paradosso della nostra legislazione, e della stessa Giustizia, ha raggiunto livelli metafisici. Perché la Magistratura, in nome di una norma, ha bloccato l’attività produttiva, e invece in nome di un’altra vuole incriminare chi decide di chiuderla. 

Insomma, per parlar chiaro, il potenziale acquirente di quella gigantesca fabbrica non può continuare l’attività perché sarebbe indagato di vari reati ambientali, e non può nemmeno interromperla, perché allora violerebbe l’articolo 499 del codice penale, che punisce con la galera fino a tredici anni chi «distrugge i mezzi di produzione».
 
Non staremo a sottilizzare sulla natura e sulla coniugazione di questo reato, previsto, a suo tempo, per i sabotatori, e fino ad ora quasi mai contestato. Ma è certo che, se si voleva dissuadere la Arcelor Mittal dall’acquisizione della fabbrica , non v’era mezzo migliore che prospettarle l’inevitabilità di un’inchiesta giudiziaria. E per quanto si possa insinuare che la società indiana sin dall’inizio covava la riserva mentale di sabotare l’accordo, la magistratura e la politica le hanno offerto su un piatto d’argento l’occasione per rescinderlo.

Nel frattempo, diecimila dipendenti dell’Ilva, e altrettanti dell’indotto, attendono di sapere se la loro professionalità di metalmeccanici debba essere convertita, come ha suggerito un’autorevole esponente grillina, in allevatori di molluschi eduli lamellibranchi. 

In questo incredibile groviglio di norme e di indagini, in cui pare inserirsi anche la Procura di Milano, la responsabilità maggiore risiede, ovviamente, nell’operato del governo. Non solo perché ha mantenuto un atteggiamento ondivago e contradditorio nel (non) garantire il cosiddetto scudo penale per i potenziali acquirenti, ma perché ancora una volta sembra affidarsi alla Magistratura per risolvere un problema di cruciale interesse collettivo.

Il presidente del Consiglio Conte, dopo aver chiesto ai suoi ministri suggerimenti e idee nuove per gestire la crisi, sembra infatti confidare nei ricorsi e nelle Pandette per costringere la Arcelor a un adempimento contrattuale che - nel migliore dei casi - si risolverebbe in un mero risarcimento dei danni, perché, come ogni civilista ben sa, “nemo ad factum cogi potest”. Che tradotto in termini accessibili significa che nessuno può esser costretto a fare quello che non vuole: soprattutto se, come nel caso concreto, corre il rischio di finire in galera. 

Che fare allora? Ammesso che con gli indiani ormai la partita sia chiusa, resta da garantire la salvaguardia degli altri potenziali acquirenti: non con un decreto ad hoc, che favorisca Tizio o Caio, ma con una norma generale e astratta, che stabilisca la liceità di un’attività produttiva gradualmente orientata alla bonifica ambientale, anche se temporaneamente nociva.

I puristi diranno che così lo Stato chiude un occhio. Può darsi. Ma talvolta la necessità non conosce legge. Come avvenne a Venezia trent’anni fa, quando per assicurare il servizio Giustizia si sacrificarono i servizi igienici.
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